Allerta sul Libano
Gli americani temono la strategia israeliana su Hezbollah
Biden ha già detto “state fermi” una volta. I funzionari della sua Amministrazione si chiedono: Israele fa sul serio quando parla di un’altra guerra, contagiosa, in Libano?
Ieri Hezbollah ha pubblicato un comunicato sul martirio del proprio comandante Hassan al Tawil nel sud del Libano. Al Tawil è il miliziano più alto in grado ucciso da Israele in questa guerra e apparteneva all’unità speciale Radwan, quella che secondo Tsahal potrebbe infiltrarsi oltreconfine per replicare da nord i massacri compiuti da Hamas il 7 ottobre nel sud del paese. Una guerra con Hezbollah sarebbe diversa da quella contro Hamas: la milizia libanese ha un arsenale di 150 mila missili, di cui alcune migliaia hanno una gittata sufficiente a colpire qualsiasi punto sulla mappa di Israele. Prima i proiettili meno raffinati verrebbero lanciati in massa per saturare le difese aeree, poi quelli a guida di precisione, sparati approfittando della confusione, punterebbero ai bersagli di alto valore in giro per il paese. Nelle città israeliane le sirene suonerebbero molto più spesso, per segnalare una minaccia più spaventosa di quella rappresentata già oggi dai razzi rudimentali di Hamas. Uno scenario che non conviene a nessuno – non a Israele, non ai libanesi e neanche a tutti gli altri paesi del medio oriente secondo il portavoce del segretario di stato americano Antony Blinken, che sta facendo il suo quarto tour della regione soprattutto per scongiurare un’escalation.
Già l’11 ottobre – quattro giorni dopo l’attentato nei kibbutz e al rave di Reim – Joe Biden aveva telefonato a Benjamin Netanyahu per fermare un attacco preventivo contro il Libano. Il ministro della Difesa, Yoav Gallant, sosteneva che il rischio di un agguato di Hezbollah fosse serio e imminente, e Israele non si poteva permettere un altro fallimento degli apparati di sicurezza dopo quello più catastrofico della sua storia. Gli americani però non erano convinti delle informazioni d’intelligence sui piani della milizia libanese portate dagli israeliani, e anche oggi a Washington credono che Hezbollah non abbia intenzione di tirarsi in casa una guerra totale. Per gli Stati Uniti gli scambi di fuoco al confine nord sono già un problema serio così, anche perché negli ultimi tre mesi Israele ha colpito 34 volte – una volta con il fosforo bianco – l’esercito regolare libanese, che gli americani addestrano e finanziano.
Il Washington Post ha parlato con più di dieci funzionari americani e, domenica, ha scritto che alcuni considerano la minaccia di un’invasione nel sud del Libano, che il governo Netanyahu è tornato a pronunciare, molto concreta, mentre altri pensano sia “una semplice spacconata” utile a costringere il capo di Hezbollah a ritirare volontariamente i suoi miliziani dal confine con lo stato ebraico. Questo è l’epilogo che auspica – e a cui lavora – anche l’Amministrazione Biden, e nel suo ultimo discorso pubblico di venerdì il capo della milizia, Hassan Nasrallah, ha aperto (a modo suo) a un negoziato sul confine se e quando smetteranno le bombe su Gaza.
La settimana scorsa Hezbollah ha fatto indietreggiare, almeno temporaneamente, i suoi combattenti dalle posizioni più avanzate – attaccate alla recinzione che segue la linea di demarcazione tra i territori dei due paesi – di poco più di un paio di chilometri. Gli Stati Uniti lo hanno preso come un segno della possibilità di ricreare una zona cuscinetto tra Israele e i suoi nemici a nord senza fare una guerra. Dopo tutto basterebbe ripristinare la legalità internazionale: secondo la risoluzione 1701 delle Nazioni Unite, approvata alla fine della guerra nel 2006, ogni combattente di Hezbollah dovrebbe rimanere a nord del fiume Litani, cioè lontano trenta chilometri dal confine. Ma a oggi la missione dell’Onu, Unifil, e l’esercito libanese non sono stati capaci di far rispettare questa regola alla milizia sciita amica di Teheran.
Nel gruppo di quelli sentiti dal Washington Post, gli ufficiali americani che credono Israele possa davvero attaccare il Libano hanno confessato al giornale un timore: che il primo ministro Netanyahu preferisca una guerra più grande perché “quando finisce la guerra, finisce anche la sua carriera”. La paura è che gli istinti di sopravvivenza politica di Netanyahu, mischiati ai timori dei generali di sottovalutare un’altra volta una minaccia esistenziale a Israele, finiscano per provocare un attacco al Libano dalle conseguenze potenzialmente pericolose per tutti.
Gli Stati Uniti stanno portando via una delle loro portaerei, la Ford, che avevano schierato in difesa dello stato ebraico e come fattore di deterrenza a un allargamento del conflitto, e non vogliono un’escalation anche perché non vogliono essere trascinati loro stessi in una guerra regionale. Dall’altra parte c’è l’Iran. Se Hamas a Gaza e Ansar Allah in Yemen sono due alleati considerati relativamente sacrificabili per Teheran, Hezbollah è la milizia più importante per gli ayatollah e una polizza sulla vita che serve come deterrente ad attacchi israeliani contro le proprie centrali nucleari. E’ probabile che l’Iran reagirà in modo diverso se Israele, invece di concentrarsi soltanto sulla distruzione di Hamas, si desse come obiettivo successivo anche la distruzione di Hezbollah.