reportage
Sulle isole Matsu: la linea del fronte della democrazia taiwanese
Il dialetto è lo stesso, molti hanno parenti dall’altra parte dello Stretto. Alle Matsu, più vicine a Pechino che a Taiwan, il legame con la Repubblica popolare è indissolubile. Ma nessuno vuole rinunciare alla libertà
Al porto Fuhao di Nangan, l’isola più grande delle Matsu, tutti i giorni partono e approdano con carichi di merci e bagagli centinaia di persone, con mete diverse: le altre isole dell’arcipelago, l’isola principale di Taiwan, oppure la Cina. L’unica corsa che impiega una notte intera è quella che collega le Matsu al porto di Keelung, nel nord di Taiwan. In un’ora soltanto, invece, si arriva dall’altra parte dello Stretto, al porto di Mawei, nella città cinese di Fuzhou. E’ questa la contraddizione che rende le isole Matsu la prima linea del fronte nel conflitto infinito fra “le due Cine”, la Repubblica popolare cinese e la Repubblica di Cina: l’essere da sempre più vicine a Pechino che a Taipei. Ed è anche il motivo per cui questo arcipelago formato da cinque isole principali, che dista dal suo punto più vicino soltanto una decina di chilometri dal Fujian, la provincia nella costa est della Cina, e quasi duecento da Taipei, è dal giorno dell’arrivo delle truppe del Kuomintang di Chiang Kai-shek caratterizzato da un’altissima presenza militare. Dal 1949 le Matsu, insieme a Kinmen – l’altro avamposto taiwanese vicinissimo a Pechino – convivono con la minaccia dell’invasione cinese, sotto bersaglio costante della Repubblica popolare cinese, soprattutto a partire dal 1958, durante la Seconda crisi dello Stretto di Taiwan. In quel periodo le Matsu arrivarono a ospitare il numero più alto di soldati, cinquantamila, che poi negli anni sono gradualmente diminuiti. Capita di vederne ancora molti confondersi fra i turisti delle isole. “Sappiamo che le Matsu potrebbero essere tra le prime isole a essere prese dalla Cina in caso di un’invasione, quindi ci prepariamo a tutti i possibili scenari e a tutte le tattiche di combattimento”, dice Li, un militare al porto di Nangan che aspetta di imbarcarsi per Xiju, una delle isole Matsu raggruppate sotto il nome ufficiale di “contea di Lienchiang”. Si è arruolato nell’esercito taiwanese cinque anni fa e in quanto militare non può andare in Cina, a Shanghai dove vive suo padre, ma questo, dice, non influenzerà la sua determinazione a resistere alle forze cinesi se e quando sarà il momento. Li racconta delle intimidazioni dei pescherecci cinesi che “si avvicinano molto alle nostre coste”, e dice di essere pronto a un’ipotetica guerra con Pechino: “Anche le generazioni precedenti hanno sempre vissuto con la minaccia di un’invasione, e se dovesse scoppiare un conflitto non sarebbe una sorpresa. Non ho paura della guerra, ma ovviamente non voglio che accada: qui non vogliamo la guerra ma non vogliamo nemmeno la Cina”.
Eppure sulle Matsu, dove nei giorni di bel tempo la costa cinese si fa nitidissima insieme alle sue centrali eoliche, l’identità cinese è molto più forte che in qualsiasi altra parte di Taiwan, si percepisce subito, anche nell’architettura: qui a differenza di Taiwan non vi è stata alcuna parentesi coloniale giapponese, poiché la Cina considerava – e considera tutt’oggi – le Matsu parte del Fujian, e non le cedette al Giappone al termine della guerra sino-giapponese. Ancora oggi questa contea condivide con Pechino lo stesso dialetto, quello di Fuzhou, e tutti questi elementi, insieme alla mancanza di una storia condivisa con Taipei e il profondo radicamento del partito nazionalista del Kuomintang fanno sì che molti abitanti delle Matsu si identifichino tradizionalmente come cinesi anziché taiwanesi. “Siamo tutti cinesi, anche i taiwanesi sono cinesi. Se Taiwan dovesse dichiarare l’indipendenza, ci sarà una guerra. Se invece non la dichiarerà, non vi sarà alcuna guerra”, dice convinta Chen, un’abitante delle Matsu che a 83 anni ancora vende il pesce al mercato di Nangan. La stanchezza di essere definiti da oltre settant’anni “l’ultimo avamposto”, la “frontline” o “il Donbas di Taiwan” fa parte di quell’identità così particolare di queste isole in cui sembra regnare soltanto pace e calma. Gli abitanti dicono: qui alle Matsu oltre l’invasione c’è di più. Il passato militare è stato spesso trasformato in un’attrazione turistica, gli slogan anticomunisti del Kuomintang come “recuperare la terraferma” o “liberare i nostri compatrioti della terraferma” sono ancora lì, oggi punti dove fermarsi a scattare una foto, e nelle centinaia di tunnel costruite e utilizzate un tempo dall’esercito della Repubblica di Cina ora sono nati bar e caffetterie. Il tunnel Beihai, uno dei passaggi sotterranei più grandi scavati dall’esercito taiwanese nel 1968 su una collina di Nangan per l’attracco delle navi da guerra, oggi è uno dei luoghi turistici più popolari da percorrere in canoa per ammirare il particolare scintillio delle “lacrime blu” sui suoi fondali. Lo scorso novembre si è anche conclusa la seconda edizione della biennale delle Matsu che riempie le isole di progetti artistici per renderle delle “isole museo”. Ha anche aperto per la prima volta ai visitatori la centrale elettrica Jun Hun, costruita dalle truppe taiwanesi in un tunnel nel 1973 sull’isola di Beigan, la seconda più grande delle Matsu.
Wang Chung-ming, il governatore locale del partito del Kuomintang della contea di Lienchiang, dice che “questi non sono più gli anni delle Matsu in prima linea”. Wang si dice il più grande sostenitore delle Matsu come isole in grado di mostrare un altro lato del loro valore oltre alle reliquie della guerra. “Lasciamo che mostrino le loro potenzialità anziché ricordare solo il dolore passato. Ho vissuto il passato delle Matsu in prima persona, ma ora vogliamo guardare la nostra storia da un’altra prospettiva, concentrandoci sulla traduzione culturale e artistica per mostrare la bellezza nascosta di queste isole”, dice Wang. Il partito all’opposizione del governo nazionale, il Kuomintang, qui domina da oltre un decennio. Alle Matsu c’è un fortissimo sostegno popolare nei confronti del partito nazionalista soprattutto a causa della vicinanza a Pechino – molti dei 14 mila abitanti delle isole hanno parenti o amici nella Cina continentale – e da quando Wang è entrato in carica nel dicembre 2022 ha promosso attivamente gli scambi e il commercio attraverso lo Stretto. “Vogliamo incentivare gli affari e il turismo con la Cina”, dice in vista delle elezioni che si terranno il prossimo 13 gennaio a Taiwan, e anche Li Wen, il volto del partito al governo, il Democratico progressista (Dpp) che a Taipei ha una linea più dura nei confronti di Pechino, alle Matsu utilizza maggiore cautela sempre a causa della distanza dalla Cina.
Dal quartier generale del Dpp a Nangan, Li Wen ci dice che nonostante le Matsu siano “la linea del fronte della democrazia”, negli anni la definizione di linea del fronte è un po’ cambiata, e anche se è necessario prepararsi a ogni possibile scenario non è detto che in caso di un attacco cinese il primo obiettivo di Pechino siano le Matsu. Le persone qui sono caute, ma non lasciano che le intimidazioni cinesi influiscano sulla nostra vita quotidiana, dice Li. E anche la forte identità cinese sulle isole, Li non la vede come un ostacolo all’identità taiwanese ma come un’alternativa a quella propagandata da Pechino. “Da quello che vediamo sulle Matsu, molte persone hanno legami familiari o amici al di là dello Stretto. Le persone parlano un dialetto simile a quello dei loro amici e parenti che vivono lungo la costa cinese. La gente tiene molto al patrimonio culturale condiviso tra la Cina continentale le Matsu. Tuttavia, questo non significa che le persone vogliano vivere sotto uno stato autoritario. E sicuramente non significa che le persone vogliano rinunciare alla loro libertà. Quindi credo sia importante distinguere tra identità culturale e identità politica”. Condividere un legame culturale con la Cina non significa voler subire l’unificazione del governo comunista cinese, dice il leader progressista che fa opposizione sulle Matsu. “Qui le persone, soprattutto le generazioni più giovani, sono cresciute sotto la democrazia. E la democrazia è una cosa naturale, come l’aria che respiriamo e l’acqua che beviamo. Quindi è importante che la popolazione delle Matsu mantenga uno stile di vita democratico. Tuttavia è altrettanto importante per gli abitanti che il governo di Taipei rispetti le differenze culturali e il patrimonio culturale unico delle Matsu”.
Eppure sulle isole la minaccia di Pechino non è mai sparita del tutto. Lo scorso febbraio l’arcipelago è rimasto senza internet dopo che i due cavi sottomarini cui fa affidamento per la connessione sono stati tagliati: la Commissione nazionale per le comunicazioni ha accusato dei pescherecci cinesi, anche se ancora oggi Taipei non ha trovato prove dirette né può affermare con sicurezza che si sia trattato di un atto deliberato da parte di Pechino. E soltanto la poche settimane fa l’intelligence taiwanese ha fatto trapelare la notizia che nei tentativi cinesi di interferire nelle elezioni di Taipei ci sarebbe anche l’intensificazione di pellegrinaggi e scambi con gruppi religiosi nelle zone rurali di Taiwan sul culto della dea Mazu, la dea dei mari, che dà il nome all’arcipelago ed è la protettrice della popolazione taiwanese (in tutto il paese ci sono più di mille templi dedicati alla divinità). Così mentre il governatore del Kuomintang sostiene la politica dei “Quattro nuovi collegamenti” proposta dal presidente cinese Xi Jinping per costruire quattro collegamenti infrastrutturali tra la Cina e Matsu – acqua, gas, elettricità e ponti –, viaggia spesso in Cina con delegazioni del partito ed è addirittura favorevole alla costruzione di un ponte che colleghi le Matsu alla Cina il cui costo stimato è di 14 miliardi di dollari, il candidato progressista chiede maggiore cautela e si oppone a certe proposte. “Sono contrario a supportare questa farsa o ad assecondare gli sforzi della campagna di influenza del Partito comunista cinese solo per dare un’apparenza di dialogo”, dice Li Wen. “Qui alle Matsu forniamo alcuni esempi vividi di come la Cina eserciti la propria pressione attraverso metodi non militari. Ciò che accade alle Matsu offre una finestra sui vari modi in cui Pechino tenta di espandere la sua influenza”.
Da Kinmen, l’altro arcipelago vicinissimo a Pechino, si leggono chiaramente i caratteri in rosso posizionati intenzionalmente dall’altra parte, sulla sponda cinese di Xiamen: “Un paese, due sistemi per unificare la Cina”. Dalle Matsu non si vedono slogan di propaganda simili, ma c’è un traghetto con una bandiera gialla che tutti i giorni collega il porto di Nangan con quello di Fuzhou che rende molto fiero Xi Jinping. E’ un collegamento che è stato riattivato da pochi mesi, era stato interrotto a causa del Covid e puntualmente viene promosso sui social dalla propaganda di Pechino come il collegamento vincente dei “due ma”, i due cavalli, perché entrambi i nomi dei porti, Matsu e Mawei, condividono il carattere cinese del cavallo. Mentre salgono a bordo i passeggeri trascinandosi scatoloni e bagagli, una signora di 74 anni dice che non intende salire, non ha nessuna intenzione di andare in Cina ed è grata al mare che la separa. “Non mi sento né cinese né taiwanese ma una Matsu ren”, un’abitante delle Matsu: “Non ho mai creduto che la Cina potesse invaderci, perché credo fortemente nel nostro esercito, l’esercito di Taiwan”. Dice che alle prossime elezioni voterà il Partito democratico progressista perché “in grado di affrontare il governo cinese”, mentre il Kuomintang non lo è. In testa porta un cappellino con il disegno della dea Mazu, la protettrice di quel mare che separa i due lati dello Stretto e la cui statua imponente si erge sull’isola di Nangan con alle spalle il Fujian. Accanto alla dea si leggono due caratteri, pingan, che significa pace nel senso spirituale del termine, significa: stare al sicuro.