L'analisi
"L'esperimento Milei" è un unicum argentino: chi è da temere è Trump
Il neo eletto presidente dell'Argentina ha vinto senza un partito grazie all'aiuto dei social e dei giovani. Nel suo tentativo di bilanciare l'economia del paese, ha svalutato del 50 per cento la moneta. Ma tra i tanti errori, una cosa buona l'ha fatta: ha spostato il paese sotto l’influenza degli Stati Uniti (e fuori dai Brics)
Il premio Nobel per l’economia dello sviluppo Simon Kutznets nel 1971 lo aveva già detto: esistono paesi sviluppati, paesi in via di sviluppo e poi il Giappone e l’Argentina. L’Argentina è un paese molto difficile da inquadrare in una categoria sia in economia che in politica. E lo stesso accade con il neopresidente Javier Milei. L’Argentina ha avuto due grandi episodi di iperinflazione negli anni '70 e '80 e due tentativi falliti di stabilizzazione del cambio (il piano Austral e la parità peso-dollaro) al termine dei quali la svalutazione del 2001 ha spazzato via i risparmi della classe media causando profonde recessioni. L’economia è esposta alle fluttuazioni dei prezzi delle materie prime e agricole, soprattutto della soia di cui la Cina è il maggior compratore dagli anni 2000, del petrolio e del litio, anch’esso largamente scambiato con i cinesi. La storia politica è altrettanto singolare a iniziare da Juan Perón, che era amico di Franco (da cui fu ospite in esilio per 18 anni), ammiratore di Hitler e Mussolini ma contemporaneamente fondatore del partito dei lavoratori e dei sindacati: con lui l’Argentina ospitò la maggiore immigrazione di tedeschi che fuggivano dai nazisti prima della guerra e poi quella dei nazisti che fuggivano dopo la guerra. Peronista era il presidente Menem che negli anni 90 si affidò ai liberisti della scuola di Chicago, come peronisti sono i Kirchner che si sono affidati ai russi e ai cinesi. L’Argentina ha avuto sei colpi di stato nel 20esimo secolo, l’ultimo tragico dei militari antiperonisti e anticomunisti dal 1976 al 1983 fece 30mila desaparecidos.
In tutto questo, Milei ha vinto in pochi mesi senza un partito (un po’ come Zelensky in Ucraina) con l’aiuto dei social e del voto dei giovani. Si è poi alleato con quella larga constituency che fa riferimento agli Stati Uniti e all’ex sindaco di Buenos Aires ed ex presidente Macri cui fanno riferimento gran parte dei ministri. Ha soprattutto vinto sulle macerie della corruzione del partito peronista al potere fino all’anno scorso di Nestor e Cristina Kirchner. S’ispira a due quasi-golpisti come Trump e Bolsonaro, dice delle cose irragionevoli come “lo stato è inutile” o “aboliamo la banca centrale”, ma allo stesso tempo dice delle cose di buon senso sull’eliminazione dei vincoli all’import e all’export e sulla privatizzazione di parte dell’economia argentina largamente gestita in maniera inefficiente dallo stato. Riuscirà nell’impresa di sconfiggere l’iperinflazione?
Per ora no, se non altro perché, avendo svalutato del 50 percento la moneta e avendo tolto i limiti ai prezzi dei beni domestici, ha provocato l’immediato raddoppio dei prezzi nei supermercati. Quest’anno l’inflazione sarà del 200 per cento se non di più. In un paese di 46 milioni di abitanti con 20 milioni di attivi, 4 di lavoratori pubblici e solo 6 nel settore privato: tutto il resto è lavoro autonomo o nero. La riduzione del deficit (oggi al 4 per cento) non basterà a sconfiggere l’iperinflazione che è dovuta alla perdita di fiducia nella moneta (il taglio di banconota più alto è 2.000 pesos che corrispondono a 2 euro, i pagamenti cash sono già ingestibili). Però è vero che tutti hanno iniziato da lì e dall’indipendenza della Banca centrale: in Sud America sono rimasti solo l’Argentina e il Venezuela con l’inflazione fuori controllo, tutti gli altri paesi sono a posto. La dollarizzazione probabilmente non avverrà mai, non ci sono i dollari, e poi è utile mantenere la politica di cambio per un paese in difficoltà con l’inflazione: se ci fosse il cambio fisso e il dollaro si apprezzasse, sarebbe la fine per l’economia, come successe nel precedente peg al dollaro finito nel caos del 2001.
Ma una cosa buona Milei sicuramente l’ha fatta: ha spostato il paese sotto l’influenza degli Stati Uniti e fuori dal blocco dei Brics egemonizzato dalla Cina. In un mondo dove la geopolitica è tutto, questo potrebbe salvare gli argentini se dovesse esserci il disastro economico e sociale. Gli Usa non potranno non salvare un alleato prezioso che per di più ha scelto in libere elezioni democratiche di schierarsi con loro. Non è una cosa da poco in un continente, come l’America Latina, dove molti paesi dal Brasile al Perù, per non dire il Venezuela e praticamente tutti i paesi dell’America centrale, hanno molto recentemente dimostrato pericolose simpatie per regimi non democratici. In questo momento storico però “l’esperimento Milei”, per quanto possa essere per qualcuno interessante e per molti preoccupante, molto dipenderà da cosa succederà in America nelle prossime elezioni presidenziali. Milei difficilmente rappresenterà un modello fuori dall’Argentina, viste le peculiarità storiche, economiche e politiche del paese. Se però negli Usa dovesse vincere Donald Trump, che si è già schierato a fianco del nuovo presidente argentino, gli attuali assetti geopolitici ne risentirebbero e il mondo avrà ben altri problemi che temere l’effetto imitazione di Milei.
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