davanti ai giudici

Un processo farsa per fermare Israele

Micol Flammini

All’Aia nessuno crede nell’accusa di genocidio, neppure gli accusatori del Sudafrica. L'attenzione è sulla richiesta di misure provvisorie. I tempi della giustizia, gli assenti e le vie di fuga per Hamas

Nelle ottantaquattro pagine che il Sudafrica ha inviato alla Corte internazionale di giustizia  dell’Aia per accusare Israele di genocidio contro il popolo palestinese si nota subito una mancanza. Non c’è riferimento alcuno ai motivi per cui Israele è entrato in guerra, non ci sono i crimini di Hamas, non c’è la storia degli abitanti dei kibbutz uccisi, torturati, rapiti il 7 ottobre. Con le ottantaquattro pagine, il Sudafrica ritiene che Israele abbia commesso un genocidio e chiede misure provvisorie, un’ingiunzione internazionale che ordini ai leader israeliani di cessare le attività di guerra. E’ il secondo punto che la Corte ha iniziato a discutere ieri e una risposta potrebbe arrivare entro fine gennaio, mentre qualsiasi deliberazione sulle accuse di genocidio sarà lunga, richiede un periodo di almeno due anni e il coinvolgimento di altri organi internazionali.  Non è l’accusa di genocidio che interessa al Sudafrica,  sono le misure provvisorie, perché offrono la possibilità di modificare la guerra a Gaza per sempre, di imporre a Israele giuridicamente quello che Hamas esige dal primo giorno: non una tregua ma un cessate il fuoco totale che consentirebbe ai terroristi di ricompattarsi, riorganizzarsi e rimanere al potere a Gaza. Se la Corte si pronunciasse a favore di queste misure provvisorie, Israele potrebbe di certo ignorarle, ma sa bene che farlo causerebbe danni enormi alla sua reputazione e una perdita di influenza ancora maggiore sulla scena internazionale. La Corte non può cancellare il diritto di autodifesa dello stato ebraico, ma questa causa in cui si accusa l’aggredito, senza menzionare l’aggressore, ha un grosso impatto sull’opinione pubblica. Il Sudafrica si è mosso per legare le mani di Israele e ha messo la giustizia internazionale davanti a una prova molto grande. Non è l’accusa di genocidio che davvero interessa agli accusatori, ma la distruzione dell’immagine dello stato ebraico e la possibilità di fermare la guerra a favore di Hamas, che ha già detto in più occasioni che intende ripetere il 7 ottobre, che non vuole fermarsi o rinunciare a qualsiasi azione in grado di  portare alla cancellazione di Israele. Quel che conta nella causa del Sudafrica non è tanto il principio, ma l’intenzione con cui è stata presentata. Secondo Daniel Taub, ex ambasciatore, avvocato, negoziatore del processo di pace con i palestinesi, dopo le oltre ventimila vittime dentro Gaza, i massacri nei kibbutz israeliani, la domanda da porsi  non sarà tanto se ci sia un genocidio o meno – per la definizione del quale mancano le basi – ma  come si valuta il successo di una guerra con un numero di civili morti così alto. 


Israele ha deciso di andare all’Aia, di non sottrarsi alla causa, ha nominato un giudice della Corte molto lontano dal governo attuale e ha dato prova di non volersi sottrarre alla giustizia internazionale, anzi, di essere lì per rispettarla, e per difendersi ha sottolineato le mancanze di questo processo. Ieri sono arrivate nei Paesi Bassi anche le famiglie degli ostaggi. L’Agenzia pubblicitaria governativa aveva preparato dei cartelloni per sensibilizzare l’opinione pubblica sugli oltre cento israeliani detenuti a Gaza. Si prevedeva che la campagna venisse  lanciata assieme alle altre iniziative dei parenti delle vittime organizzate per l’udienza. L’Agenzia si era rivolta a dieci società di cartellonistica dell’Aia, di Rotterdam e dell’aeroporto di Schiphol, ma non è riuscita a pubblicare gli annunci in nessun luogo. I cartelloni erano molto semplici, fatti con le fotografie degli ostaggi accompagnate alla scritta: “Lui non può testimoniare”. Le voci degli ostaggi sono mute. Non si sa dove siano, non si sa come stiano. Non si sa se siano vivi o morti.  Ieri, chi non era all’Aia, è andato al confine con Gaza, si è portato dietro degli altoparlanti e ha gridato: “Stiamo ribaltando il mondo per  riportarvi a casa”. 

  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)