il voto
Le vere sfide del nuovo presidente di Taiwan, William Lai
Vince la democrazia, ma i progressisti sanno che non basta più. Le novità e le sorprese. I voti persi e la minaccia cinese. Le parole di Biden e quelle della Cina
La grande sfida del Partito democratico progressista di Taiwan comincia lunedì, e non riguarda soltanto Pechino. William Lai Ching-te ha vinto le elezioni presidenziali con poco più di cinque milioni e mezzo di voti. E' stato il giorno delle celebrazioni, dei festeggiamenti, delle reazioni da parte del mondo – soprattutto America e Cina – e naturalmente pure delle tradizionali accuse di brogli. Ma oggi, fanno sapere dal partito taiwanese più inviso alla Repubblica popolare cinese, si comincia a lavorare su quei due milioni e seicentomila elettori che hanno scelto di non ridargli fiducia.
Alle ultime elezioni del 2020, infatti, i progressisti guidati dalla presidente uscente Tsai Ing-wen avevano vinto con oltre otto milioni di voti: da quando è in vigore l’elezione diretta del presidente della Repubblica di Cina, cioè il 1996, è la prima volta che il Partito democratico progressista riesce ad assicurarsi tre mandati di seguito, governando per dodici anni il paese, ma non è detto che la sua offerta tenga ancora per molto. Le elezioni dello Yuan legislativo, il Parlamento monocamerale di Taiwan, sono andate anche peggio: i dem hanno perso dieci seggi e ne hanno conquistati solo 51, mentre il principale partito d’opposizione, il Kuomintang, si è trasformato nel più grande del paese con 52 parlamentari, sebbene non sufficienti a garantirgli la maggioranza. Il sindaco di Nuova Taipei ed ex poliziotto Hou Yu-ih, come previsto, ha raccolto consensi attorno al Kuomintang, anche e soprattutto per la svolta moderata di un partito che fino a qualche anno fa era considerato troppo vicino alla Cina e con un linguaggio antiquato, accattivante solo per le vecchie generazioni. Ma la grande sorpresa è arrivata dal Taiwan People’s Party, il partito guidato da Ko Wen-je, votatissimo dai giovani in questa tornata elettorale, probabilmente ammaliati dalla promessa di uscire dalla tradizionale dicotomia fra democratici e nazionalisti, pro-Cina e anti-Cina, guerra e pace. Alle presidenziali Ko ha guadagnato oltre tre milioni e mezzo di voti, e ora è l’ago della bilancia nello Yuan legislativo.
Tutto ciò che è accaduto nelle ventiquattro ore dopo il voto, scrutinato in tempo record e rigorosamente manualmente, per smentire potenziali accuse di brogli e ingerenze esterne, era prevedibile. Il presidente-eletto Lai, che inizierà il suo mandato a maggio, ha detto che “tra democrazia e autoritarismo, abbiamo scelto di stare dalla parte della democrazia. E’ questo il significato di questa campagna elettorale per il mondo”, ma ha aggiunto pure di essere pronto a “dialogare con la Cina” per mantenere “lo status quo inalterato”: una frase necessaria per smentire la propaganda di Pechino che voleva l’elezione di Lai – che per molto tempo in passato è stato un sostenitore della formale indipendenza di Taiwan – un “punto di non ritorno” nei rapporti tra Pechino e Taipei, e quindi in parte anche di Washington. Anche la frase del presidente americano Joe Biden, “non sosteniamo l’indipendenza di Taiwan”, serviva a rassicurare per il momento gli animi a Pechino (e del resto, niente di nuovo: l’America formalmente aderisce al principio di “un’unica Cina”).
La sfida di Taiwan è sul lungo periodo, e si gioca anche sulle questioni più squisitamente interne. Il presidente-eletto Lai sa che per difendere la democrazia, sull’isola che la Cina considera proprio territorio, serve uno sforzo gigantesco: per ora, la sfida di attirare l’attenzione internazionale su un sistema democratico tra i più vibranti al mondo, è stata vinta.