the Donald bianco e oro
All'Hotel Fort di Des Moines, tra cimeli e modernità, s'è visto il nuovo Partito repubblicano
In Iowa s’è presentato un Gop tutto trasformato dal gioco di Trump che fa “l’inevitabile”. Una nuova creatura, movimentista e aggressiva, che segnerà a lungo la politica americana negli anni a venire, con o senza l'ex presidente
Des Moines, Iowa. La lobby d’ingresso del centenario Hotel Fort Des Moines, nella capitale dell’Iowa, è una perfetta metafora dell’evento storico che è avvenuto la notte scorsa in America. A prescindere dalle percentuali per Donald Trump e i suoi sfidanti, il voto in Iowa segna una svolta epocale per il Partito repubblicano e l’albergo ne è una testimonianza visibile.
Un tempo nell’atrio di questo gigantesco hotel del 1919, con gli arredi in stile “Titanic”, si guardavano storto gli strateghi di Ronald Reagan e George H. W. Bush, impegnati a contendersi la nomination repubblicana del 1980. Poi erano venuti gli anni di Bob Dole e Newt Gingrich e quelli di Bush figlio: tante campagne elettorali che facevano base al Fort per cercare di conquistare i caucus dell’Iowa, il primo stato a votare nell’anno delle presidenziali.
Da John McCain a Mitt Romney e Mike Huckabee, l’establishment repubblicano qui è sempre stato di casa, fino a quando l’albergo non ha chiuso nel 2015. L’anno scorso ha riaperto completamente rinnovato, con nell’atrio i cimeli di quando Elvis e Johnny Cash si fermavano a dormire durante le tournée nel midwest. E adesso nella lobby si aggirano i nuovi repubblicani, che sono profondamente cambiati, come il Fort.
Trump ha fatto base qui in questi giorni di voto, facendosi fotografare festoso con tutto lo staff sul balcone affacciato sull’atrio del Fort, in un’atmosfera da conquistatori. E domenica sera, alla vigilia dei caucus, nel ristorante dello storico albergo tutti gli occhi erano puntati su Kari Lake, trumpiana di ferro, nuova potente, ex conduttrice televisiva che dopo aver fallito la corsa a governatrice dell’Arizona ora punta a un posto da senatrice (ma sogna molto di più: la vicepresidenza?).
Al Fort di Des Moines come al Congresso c’è ormai un nuovo Partito repubblicano e il voto delle primarie è storico perché sancisce che, come per l’albergo, il restauro è finito. Nel momento stesso in cui si sono aperti i caucus, si è completata la trasformazione di una delle organizzazioni politiche più importanti al mondo, il Partito repubblicano, che va avanti da quasi quindici anni. Perché è arrivato a compimento un percorso cominciato negli anni della presidenza di Barack Obama, con i Tea Party, che ha completamente mutato il Grand Old Party. Dando vita a una nuova creatura, movimentista e aggressiva, che segnerà a lungo la politica americana negli anni a venire, con o senza Trump.
La rilevanza storica del voto di stanotte sta semplicemente nel fatto che l’ex presidente fosse presente come candidato nel primo voto che conta nell’anno elettorale, che si concluderà con l’Election Day del 5 novembre. Non era scontato tre anni fa, all’indomani dell’assalto a Capitol Hill dei suoi seguaci del movimento Maga (Make America Great Again). E non era scontato neppure un anno fa, quando Trump cercava di riprendersi dal voto di metà mandato per il Congresso dove i suoi candidati erano andati male e il partito gli stava sfuggendo di mano.
Invece i repubblicani dell’Iowa nella notte sono stati chiamati a pronunciarsi in una specie di referendum su un incumbent, come se dovessero scegliere tra un presidente in carica e un paio di sfidanti che hanno osato attaccarlo. E’ questa la doppia natura con cui Trump ha condotto la campagna elettorale che è arrivata alla fase cruciale dei voti: si è presentato come incumbent e inevitable, come leader politico che ormai controlla gran parte della macchina repubblicana. La trasformazione del partito sta qui: nell’essersi messo in fila dietro a Trump per il terzo ciclo presidenziale consecutivo, dopo il 2016 e il 2020. Centoquattro deputati repubblicani su 221 al Congresso hanno già dichiarato il loro sostegno formale a Trump prima del voto in Iowa e con loro una ventina di senatori: l’ultimo, alla vigilia dei caucus, è stato Marco Rubio della Florida, che nel 2016 era un suo sfidante per la nomination e aveva sempre dichiarato di stimare Nikki Haley.
C’era un’atmosfera da conquistatori in un college a Indianola, nei pressi di Des Moines, dove Trump è andato a fare l’ultimo incontro pubblico con gli elettori prima del voto. Con in testa il cappellino bianco con le scritte oro da “capitano” dei caucus, che potrebbe rimpiazzare i tradizionali berretti rossi Maga, l’ex presidente ha parlato con lo sguardo già rivolto al voto di novembre, come se non ci fossero dubbi su chi sfiderà Joe Biden. Le quasi due ore di discorso senza un filo logico, pieno di minacce agli immigrati e all’apparato federale di Washington, sono “l’arredamento” del nuovo albergo in cui Trump vuole tenere rinchiuso il Partito repubblicano per ciò che resta degli anni Venti.
Qualche decina di miglia più a nord, in un ristorante di barbecue ad Ames, abbiamo invece respirato quel che resta delle atmosfere del vecchio Hotel Fort, ascoltando la Haley parlare ai suoi elettori. Mezz’ora di discorso ordinato ed efficace, spaziando dalla politica interna agli scenari globali, con affondi decisi contro Vladimir Putin, Hamas, la Cina. Un approccio e un’atmosfera che riportano ai tempi in cui da queste parti si muovevano a caccia di voti Romney o McCain. Qualcosa di simile lo ha trasmesso anche Ron DeSantis, ma restando su un terreno Maga non troppo lontano da quello di Trump. Adesso toccherà al New Hampshire, la settimana prossima, dare un’altra indicazione forte su dove porti la trasformazione trumpiana dei repubblicani.