su tre fronti

Israele teme i buchi ai confini

Micol Flammini

Hamas non è vinto e riesce a sparare anche dal nord della Striscia. Lo stato ebraico sposta i soldati da Gaza alla Cisgiordania per paura di infiltrazioni e caos e l'esercito chiede aiuto alla politica

Il ministro della Difesa Yoav Gallant, all’inizio della settimana, aveva annunciato che le truppe israeliane stavano lasciando il nord della Striscia di Gaza e  presto avrebbero fatto altrettanto a sud, quando le operazioni nell’area di Khan Younis sarebbero state completate. I soldati  hanno iniziato a lasciare il nord e il centro e, il giorno dopo, dall’area da poco abbandonata sono stati lanciati cinquanta razzi contro la città israeliana di Netivot. Nessuna vittima, ma la constatazione è stata agghiacciante: Hamas ha ancora le capacità di sparare, ha i mezzi e le postazioni per attaccare dopo tre mesi di guerra. 


Durante il fine settimana, l’esercito ha trasferito un’unità d’élite dalla Striscia alla Cisgiordania. L’unità 217, chiamata Duvdevan, operava nella zona di Khan Younis e l’ordine di spostarsi in Cisgiordania non è arrivato perché l’operazione nella Striscia è finita, ma perché c’è la necessità di tenere sotto controllo la Cisgiordania. Per i contingenti  ancora nella Striscia, la perdita della Duvdevan è significativa. Gli uomini della 217 erano abituati a operare in Cisgiordania, erano tra quei soldati che il governo aveva preferito mettere a salvaguardia del territorio orientale, tirandosi addosso molte critiche dopo l’aggressione di Hamas. Si riteneva che la decisione di ampliare le forze in Cisgiordania e lasciare la Striscia sguarnita fosse sbagliata, politicamente orientata a salvaguardare i coloni: dopo il 7 ottobre la Duvdevan era stata spostata a Gaza per rispondere ai terroristi. Il suo trasferimento nella Striscia aveva però lasciato sguarnita la Cisgiordania, dove era rimasta una forza minima composta da riservisti. La decisione di far tornare i soldati della 217 alle loro postazioni originarie è dettata dalle preoccupazioni: secondo l’esercito il pericolo dell’aumento della violenza in Cisgiordania è credibile; gli attacchi terroristici non sono da escludere; le infiltrazioni sono un rischio concreto. La scorsa settimana, tre terroristi vicini a Hamas sono riusciti a superare il reticolato israeliano vicino a Hebron. Avevano intenzione di colpire l’insediamento di Adora, sono riusciti a superare la barriera israeliana e hanno iniziato a sparare. Sono stati uccisi, ma la paura che un gruppo di miliziani possa presentarsi in un insediamento e attaccare le case degli israeliani è alta e spaventosa. La strategia della Difesa – rinforzare il confine con il ritorno della Duvdevan e tenere sotto osservazione i movimenti di squadre armate – non trova però un appoggio nella politica. Il quotidiano Haaretz ha raccontato ieri che il governo è stato avvertito settimane fa che non permettere ai palestinesi della Cisgiordania di tornare a lavorare in Israele aumenta i pericoli. Anche la decisione, che sembra irremovibile, del ministro delle Finanze Bezalel Smotrich di non autorizzare i trasferimenti fiscali all’Autorità nazionale palestinese preme sul risentimento dei palestinesi. La paura è che al terrorismo si aggiungano manifestazioni di massa, creando una situazione caotica difficile da controllare per l’esercito israeliano.  


Il piano degli Stati Uniti per il dopo Gaza include il coinvolgimento dell’Autorità nazionale palestinese, ma da parte di Israele c’è una sfiducia profonda nei confronti  di Abu Mazen. Il leader dell’Anp è debole, dipendente dal suo partito Fatah, che è sempre più esposto alle influenze di Hamas e asservito, tanto che, secondo il Wall Street Journal, l’Anp avrebbe richiesto che i terroristi del 7 ottobre ricevessero un risarcimento. Per Israele, l’Autorità nazionale palestinese, più che un alleato con cui collaborare è vista come un pericolo da cui guardarsi e un confine da cui aspettarsi un attacco. 


I tentativi di infiltrarsi nel territorio israeliano si verificano anche dal confine settentrionale, quello con il Libano esposto agli attacchi di Hezbollah. Il 14 gennaio, dopo le undici di sera, una squadra composta da quattro uomini ha cercato di oltrepassare il confine, la linea blu tra Libano e Israele. In seguito a una segnalazione, l’esercito è intervenuto, ha aperto il fuoco contro gli uomini e ha colpito le strade usate per varcare il confine dai terroristi, poi neutralizzati, che erano in possesso di granate e kalashnikov. L’operazione si è conclusa dopo le due di notte, un soldato israeliano è rimasto ferito. Ieri Israele ha attaccato alcune postazioni di Hezbollah in Libano, colpisce nel tentativo di rimandare i miliziani più a nord e allontanarli dal confine. Spostare i soldati da Gaza e impegnarli in altri fronti indica che lo stato ebraico teme che il 7 ottobre non sia stato altro che un episodio. 
 

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)