ricerca in sicurezza
Allarme cinese nelle università, il Canada si attrezza. E l'Italia?
Il governo federale di Ottawa pubblica un elenco degli atenei che lavorano per armare la Cina (ma anche la Russia e l'Iran). A quegli stessi atenei, l'Italia dà il benvenuto. Il difficile equilibrio tra sicurezza nazionale e libertà accademica è una questione politica, altro che Via della seta
Ieri il governo canadese ha diffuso un elenco di più di cento istituzioni e centri di ricerca per lo più cinesi, ma anche russi e iraniani, che rappresentano “il rischio più elevato per la sicurezza nazionale del Canada a causa dei loro collegamenti diretti o indiretti con enti militari, di Difesa nazionale e di sicurezza dello stato”. E’ un primo tentativo da parte di un governo del G7 di mettere in sicurezza centri di ricerca e università cercando di mantenere intatto il principio della libertà accademica, e allo stesso tempo di proteggere le proprie scoperte tecnologiche affinché non finiscano nelle mani di paesi ostili come Cina, Russia e Iran. In Europa, ma soprattutto in Italia, questo genere di discussione non è mai iniziato, anzi. Diversi istituti cinesi menzionati dall’elenco canadese hanno collaborazioni attive e proficue con università italiane. A fine novembre scorso la ministra dell’Università e della ricerca, Anna Maria Bernini, in missione a Pechino ha incontrato sia il viceministro della Scienza cinese, Zhang Guangjun, sia il ministro dell’Istruzione Huai Jinpeng, ed è stato firmato un protocollo per attivare dieci nuovi progetti di ricerca congiunti di durata biennale, finanziati sia da parte italiana sia cinese.
Il Canada invece ieri ha messo i primi paletti. I ricercatori e le università che avranno collaborazioni o affiliazioni con uno degli istituti menzionati nell’elenco perderanno la possibilità di avere finanziamenti statali. Oltre al primo elenco, il governo ha redatto anche una lista dei campi di ricerca sensibili.
Secondo il governo federale di Ottawa, anche chi fa ricerca in quei campi particolarmente sensibili (dalla robotica all’Intelligenza artificiale, dai materiali avanzati all’aerospazio) dovrà essere estremamente cauto e dichiarare affiliazioni, accordi di collaborazione e soprattutto finanziamenti che provengono da “attori stranieri statali, sponsorizzati dallo stato e non, che cercano di appropriarsi indebitamente dei vantaggi tecnologici del Canada a nostro discapito”. Tra gli istituti cinesi menzionati dal governo canadese c’è per esempio il Beijing Institute of Technology (Bit), che anche secondo l’Australian Strategic Policy Institute, che da tempo si occupa di monitorare e catalogare gli istituti di ricerca cinesi, è da considerare “ad altissimo rischio per le sue credenziali di sicurezza top secret, l’elevato numero di laboratori e aree di ricerca sulla Difesa e il profondo coinvolgimento nella ricerca sulle armi”. Attualmente dodici atenei italiani hanno accordi con il Bit: l’anno scorso l’Università di Firenze ne ha rinnovato uno che va avanti dal 2016, ma anche l’Università di Pisa ha accordi per scambi e opportunità di semestri da svolgere a Pechino; il Politecnico di Milano ha firmato un accordo col Bit nel 2019 – l’anno d’oro dei rapporti Italia-Cina con la Via della seta che passa anche dalle università – nel settore dell’ingegneria civile. Matematica, Fisica, Chimica sono alcuni dei settori dell’intesa con l’Università politecnica delle Marche.
Ma il Politecnico di Milano, lo stesso anno dell’accordo quadro con il Bit, ne ha firmato un altro con la Nanjing University of Science e Technology, altro istituto considerato “ad altissimo rischio” dall’Aspi, che ha sottoscritto pure l’Università di Perugia nel 2021. Il Politecnico fino al 2022 aveva accordi anche nel settore aerospaziale con la Beihang University (“ad altissimo rischio”), e del resto la postura del Polimi verso la ricerca con la Cina è chiara già dal sito: “Il Politecnico ha firmato accordi di scambio e doppia laurea a tutti i livelli (dalla laurea al dottorato) e in tutte le discipline (architettura, design e ingegneria) con circa 30 università cinesi”, grazie anche al lavoro di Giuliano Noci, prorettore del Polo territoriale cinese. Un altro ateneo menzionato dall’elenco canadese è il Northwestern Polytechnic University (Npu), categoria “ad altissimo rischio” secondo l’Aspi, nota soprattutto per i suoi legami con la Difesa di Pechino e per lo sviluppo dei droni della Aisheng Technology Group, in dotazione all’Esercito popolare di liberazione: la Npu ha due accordi attivi con le università italiane, uno con l’Università di Firenze, uno con quella di Padova, e uno scaduto nel 2019 con l’Università di Torino. Si tratta di accordi che prevedono soprattutto la mobilità degli studenti.
Anche in America si discute da tempo di linee guida simili a quelle canadesi, in particolare dopo la pessima esperienza della China Initiative della presidenza Trump che aveva di fatto reso ogni ricercatore asiatico-americano una spia, poi cancellata dall’Amministrazione Biden. Non si tratta di un dibattito che riguarda solo le materie tecnologiche sensibili: dal periodo post Covid in poi la maggior parte delle università americane ha una certa difficoltà a iniziare nuove forme di collaborazione con la Cina, per problemi legati all’equità dello scambio, alla libertà accademica, alle connessioni tra l’ente interessato con elementi di spicco della leadership del Partito comunista cinese. Quasi tutti gli istituti Confucio dentro alle università americane sono stati chiusi (erano cento nel 2019, ne sono rimasti 5). Sia in Ohio sia in Texas sono al vaglio disegni di legge per fermare del tutto gli accordi di collaborazione con istituti cinesi, ma secondo i critici questo rischia di chiudere del tutto lo spazio dello scambio accademico e quindi anche di formare ricercatori nel campo della Storia contemporanea o delle Scienze sociali. Il tema è sensibile e complicato, alcuni dipartimenti nelle università hanno sviluppato una dipendenza dai finanziamenti cinesi, e la chiusura del dialogo accademico del tutto non è mai una buona cosa.
La missione di fine novembre della ministra Bernini serviva anche a rassicurare la leadership cinese sui buoni rapporti dell’Italia con la Cina nonostante l’uscita dalla Via della seta, ma secondo chi è informato della discussione, il tema delle collaborazioni universitarie non è stato ancora affrontato dal governo Meloni, che riterrebbe sufficiente lo stop al progetto strategico firmato dal governo Conte nel 2019 per mettersi in sicurezza dalle infiltrazioni della Cina e mostrarsi allineato con l’America sulle questioni che riguardano Pechino. Il recente provvedimento canadese forse ci dice il contrario.