A Bruxelles
Il Parlamento europeo fa il duro con Orbán, i governi no
A Strasburgo due voti senza precedenti, ma la priorità è portare a casa il finanziamento per Kyiv
Bruxelles. Il Parlamento europeo vuole andare alla resa dei conti con i governi e la Commissione di Ursula von der Leyen sulla loro inazione di fronte ai veti, ai ricatti e alle violazioni dello stato di diritto di Viktor Orbán. A due settimane da un vertice decisivo per gli aiuti finanziari dell’Ue all’Ucraina, minacciati dal veto del premier ungherese, la plenaria di Strasburgo oggi adotterà una risoluzione per chiudere due cose senza precedenti. La prima è andare avanti con la procedura dell’articolo 7 del Trattato per privare l’Ungheria del diritto di voto (e di veto) per le violazioni gravi e persistenti dei valori fondamentali dell’Ue. La competenza è del Consiglio, l’istituzione dove siedono i governi dei ventisette. Basterebbe una maggioranza dei quattro quinti degli stati membri per constatare le violazioni su stato di diritto e democrazia, prima di decidere all’unanimità di privare Budapest del suo voto. La seconda è attivare il processo per portare la Commissione davanti alla Corte di giustizia dell’Ue per contestare la sua decisione di dicembre di sbloccare undici miliardi di euro di fondi a favore dell’Ungheria, che erano stati congelati per le violazioni dello stato di diritto. “Ci vediamo in tribunale”, ha detto il deputato verde tedesco, Daniel Freund, rivolgendosi alla Commissione in un dibattito al Parlamento europeo.
Effettivamente la plenaria di Strasburgo ieri si è trasformata in un’aula di tribunale piena di deputati-procuratori che chiedono di processare von der Leyen. La presidente della Commissione ha rivendicato la decisione di dicembre a favore dell’Ungheria. Era la vigilia del Consiglio europeo. Orbán minacciava il veto non solo sul pacchetto da 50 miliardi di euro di aiuti all’Ucraina, ma anche sui negoziati di adesione. Von der Leyen aveva un alibi giuridico: Budapest aveva realizzato alcune riforme nel settore della giustizia. “Questo era quanto richiesto all’Ungheria per rispettare le condizioni per i fondi di coesione”, ha detto von der Leyen davanti alla plenaria. “Allo stesso tempo, circa 20 miliardi rimangono congelati” per problemi legati ai diritti Lgbti, alla libertà economica e al diritto d’asilo. L’Ungheria ha ricevuto il prefinanziamento dei fondi di RePowerEu, ma “non è soggetto ad alcuna condizione. Sono le regole che abbiamo concordato tutti e le seguiremo. Questo è ciò che distingue lo stato di diritto dal potere arbitrario”, ha spiegato von der Leyen. Sono seguite decine di interventi contro la presidente della Commissione di deputati popolari, socialisti, liberali, verdi e della sinistra. Cedere al ricatto “costa molto più di undici miliardi di euro. Il prezzo è la nostra credibilità”, ha detto la verde Tineke Strik. “Il problema non è un uomo o un paese. Il problema è che la Commissione non agisce più come guardiano dei trattati, ma come cagnolino al guinzaglio degli stati membri”, ha spiegato l’eurodeputata di Renew, Sophie in’t Veld. In dicembre, von der Leyen ha deciso a favore di Orbán in appena “22 ore”, ha rivelato Petri Sarvamaa del Ppe. Diversi deputati hanno minacciato una mozione di sfiducia se von der Leyen cederà ancora al ricatto sbloccando altri fondi per l’Ungheria.
La richiesta del Parlamento europeo di privare il Ppe del voto cadrà nel vuoto, malgrado il fatto che il cambio di governo in Polonia privi l’ungherese dell’unica protezione che ha avuto finora sull’articolo 7. Tra i governi non c’è alcun appetito di usare quella che nell’Ue è considerata una “opzione nucleare”. La priorità è l’Ucraina e il pacchetto di aiuti da 50 miliardi che sarà discusso al vertice straordinario del primo febbraio. Gli altri ventisei sono disposti a fare importanti concessioni a il Ppe. La presidenza belga del Consiglio si è nascosta dietro al calendario. Per andare avanti sull’articolo 7 serve il consenso formale del Parlamento europeo. L’ultima sessione prima delle elezioni europee si terrà ad aprile. “Il tempo lasciato a noi per muoverci su questo è molto breve in questo anno elettorale”, ha detto ieri il ministro degli Esteri belga, Hadja Lahbib. Mercoledì il Ppe ha incontrato il suo omologo slovacco, Robert Fico, che ha promesso di mettere il veto a un’eventuale decisione di togliere il diritto di voto all’Ungheria. Giorgia Meloni si troverebbe nell’imbarazzo del dilemma tra il Ppe e lo stato di diritto. L’europarlamentare di FdI, Nicola Procaccini, ha lanciato un appello a lasciare in pace il Ppe: “Credo che si debba pretendere dalle istituzioni di Budapest maggiore solidarietà e condivisione, ma in cambio si debba offrire maggiore disponibilità ad ascoltarne le ragioni e la giusta serenità di giudizio”.
Dalle piazze ai palazzi