Bombe tra amici
L'Iran bombarda il Pakistan e viceversa: i missili colpiscono i beluci detestati da entrambi
Le bombe tra Iran e Pakistan finiscono tutte sulle teste dei beluci (e dei gruppi jihadisti beluci), che vivono nelle aree tribali al confine e sono una minoranza detestata sia dal governo centrale di Teheran sia da quello di Islamabad
Martedì sera Teheran ha bombardato il Pakistan. Giovedì all’alba il Pakistan ha risposto sparando alcuni missili contro il territorio dell’Iran. Le due repubbliche islamiche hanno da poco firmato accordi di cooperazione e fanno esercitazioni militari congiunte. Entrambi i paesi – ma soprattutto il Pakistan – sono indignati che un vicino potente abbia osato violare il proprio spazio aereo e colpire con delle bombe in casa propria. Ma a guardare le cose un po’ più da vicino, i due paesi stanno sparando contro la stessa comunità di persone: i beluci, che vivono nelle aree tribali attorno al confine e che sono una minoranza etnica detestata sia dal governo centrale di Teheran sia da quello di Islamabad.
Martedì sera il governo pachistano si è detto indignato per i missili e i droni iraniani che hanno superato il confine e “hanno ucciso due bambini e ne hanno feriti tre”, però a meno di trentasei ore di distanza le bombe pachistane hanno ucciso tre donne e quattro bambini beluci nella cittadina di Saravan, nell’est dell’Iran, nel raid di risposta. In buona sostanza questo scambio di fuoco non è il preludio a una guerra tra due repubbliche islamiche, una sunnita e l’altra sciita, una con la bomba atomica e l’altra che lavora per provare a costruirsela, ma una guerra ai beluci.
I beluci sono un popolo di circa quindici milioni di persone che parla una propria lingua e vive tra l’Iran, l’Afghanistan e il Pakistan. E sono musulmani sunniti al contrario degli iraniani. Nel territorio a cavallo del confine tra i paesi si nascondono anche gli accampamenti dei jihadisti beluci, come quelli del gruppo fondamentalista sunnita Jaish al Adl che i pasdaran iraniani hanno colpito martedì sera. E’ il gruppo che aveva rivendicato l’attentato del 15 dicembre a una caserma di Rasak, nella provincia iraniana del SistanBelucistan. Gli uomini di Jaish al Adl avevano ucciso undici poliziotti e i pasdaran avevano promesso che li avrebbero vendicati: lo hanno fatto tre giorni fa con lo sciame di droni e missili che ha varcato il confine con il Pakistan fino ad andarsi a schiantare contro due case dei miliziani sunniti.
Martedì in una manciata di ore almeno ventiquattro missili iraniani sono partiti in tre direzioni diverse: il Kurdistan iracheno, il sud-ovest della Siria controllato da jihadisti e ribelli e il Balucistan pachistano. L’obiettivo di Teheran era vendicare i propri morti e provare a esercitare deterrenza verso i nemici. Ma soltanto i morti di nazionalità iraniana, i poliziotti di Rasak, il generale Mousavi ucciso in un raid israeliano il giorno di Natale e i pellegrini uccisi a Kerman nell’attentato dello Stato islamico del 3 gennaio. Non i morti palestinesi di Gaza, i miliziani di Hamas, i combattenti libanesi di Hezbollah o gli houthi yemeniti di Ansar Allah. L’attacco in Siria è stato simbolico, non era diretto allo Stato islamico e con ogni probabilità ha colpito un palazzo vuoto. Quello a Erbil, in Iraq, per vendicare Mousavi, ha ucciso un curdo (che secondo gli iraniani passava informazioni al Mossad) e la sua famiglia.
Teheran ha colpito tre zone del mondo che sono quasi terra di nessuno e sono abitate da deboli. Ma ha usato questa operazione anche per testare nuovi missili balistici e per mettere in scena una dimostrazione di forza in un medio oriente agitato dal massacro di Hamas del 7 ottobre, dalle stragi a Gaza e dai bombardamenti houthi nel Mar Rosso, che da una settimana non restano più impuniti.