ferri corti

L'isolamento di Bibi da Washington a Gerusalemme

Micol Flammini

Vicino al premier si sta sempre più scomodi e tra i suoi alleati inizia a circolare una parola un tempo proibita: elezioni anticipate. Dalla comunicazione con gli israeliani al rapporto con l'Autorità nazionale palestinese, i punti di rottura

Benjamin Netanyahu e i membri del gabinetto di guerra sembrano parlare di due conflitti differenti, per i quali vedono delle soluzioni opposte. Le divisioni diventano profonde e la parola “elezioni anticipate” si trasforma in  un rimedio e in una minaccia allo stesso tempo. Anche gli Stati Uniti e il premier israeliano  sembrano parlare di due guerre diverse. Se non fosse Bibi il premier di Israele, il conflitto a Gaza verrebbe condotto nello stesso modo, cambierebbe di molto la comunicazione,  che in una guerra non è cosa da poco. Gli americani, che finora hanno appoggiato le azioni di Israele sono  stanchi da tempo dell’atteggiamento di Netanyahu, che giovedì è andato in conferenza stampa a dire due stati  vuol dire meno sicurezza per Israele.  E’ un’opinione diffusa, ma Bibi ha deciso di accompagnare questa sua opinione con delle critiche nei confronti degli Stati Uniti e delle loro idee relative alla guerra e soprattutto al dopoguerra. Non c’è mai stato un buon rapporto tra Joe Biden e Benjamin Netanyahu, ma finora i funzionari americani hanno risparmiato al premier israeliano delle critiche pubbliche. Bibi non ha mai gradito che i membri dell’Amministrazione americana oltre a parlare con lui abbiano intrattenuto rapporti con i suoi oppositori: si sono incontrati con Benny Gantz, ex ministro della Difesa che è entrato nel governo dopo il 7 ottobre, ma anche con Yair Lapid, che pure era stato invitato dal premier a entrare in un governo di unità nazionale, ma ha preferito rimanerne fuori. Questi appuntamenti sono stati spesso letti dal premier come la conferma di un’antipatia nei suoi confronti e di un auspicio di caducità politica. Per tutti, Bibi sembra troppo ossessionato dalla sua situazione personale e giudiziaria per essere a capo di un paese che combatte una guerra e  potrebbe doverne combattere altre. Il gabinetto di guerra, l’organo che si è formato dopo il 7 ottobre e che prende decisioni separate rispetto al resto del governo, fa sempre più fatica a stare assieme e per la prima volta uno dei suoi membri, l’ex capo di stato maggiore Gadi Eisenkot, ha detto pubblicamente, durante un’intervista televisiva, che il paese dovrebbe andare a elezioni anticipate. Gantz e  Eisenkot credono che sia giunto il momento di usare di più la diplomazia per liberare gli ostaggi e accusano il premier di mentire agli israeliani sulla guerra: la crisi è profonda.   


 La disputa verte anche sul rapporto con l’Autorità nazionale palestinese, nessuno in Israele ritiene Abu Mazen un leader affidabile, né ritiene stabile il suo ruolo, però credono che in questo momento sia un fronte da tenere tranquillo e  sia il punto di partenza su cui lavorare per una futura convivenza. Non ci sono illusioni su quello che sarà il rapporto con l’Anp, sempre più infiltrata da Hamas, c’è solo la necessità di trovare un punto di partenza per le relazioni future: è una consapevolezza disperata. 


Gli Stati Uniti e anche l’esercito, avevano fatto presente a Bibi che fosse arrivato il momento di trasferire all’Anp i fondi bloccati da Israele e di riaprire il mercato del lavoro israeliano ai palestinesi della Cisgiordania. La seconda non è una decisione semplice da prendere, circa ventimila lavoratori palestinesi tutti i giorni attraversavano il confine da Gaza per lavorare in Israele e hanno contribuito all’attacco di Hamas dando nozioni importanti di intelligence: i terroristi sapevano di quanti membri erano composte le famiglie, di quante porte e finestre contassero le case degli israeliani e tutte queste informazioni arrivavano dai palestinesi che facevano avanti e indietro. Tuttavia, l’esistenza di una parte di popolazione che in Cisgiordania è senza lavoro aumenta i rischi per Israele e la valutazione dell’esercito è che sia meglio lasciarli tornare. La prima decisione sui trasferimenti dei fondi all’Autorità nazionale palestinese era nelle mani del ministro delle Finanze, Bezalel Smotrich, uno dei più estremisti del governo. A novembre, Smotrich aveva proposto di dare all’Anp soltanto il denaro che serve a pagare i dipendenti in Cisgiordania, e di trattenere l’altra metà che serve a finanziare il personale dell’Autorità che lavora a Gaza. Il ministro sosteneva che quei soldi avrebbero potuto contribuire a finanziare Hamas, nessuno può escludere il rischio, ma di fatto quei soldi spettano di regola all’Anp. Adesso ha  deciso di sbloccarli, come richiesto e suggerito più volte dagli Stati Uniti, a patto però che vengano prima trasferiti a un paese terzo,  potrebbe essere la Norvegia, che si assicuri che non finiscano in mano ai terroristi. Il trasferimento di questi fondi era stato al centro di una chiamata furiosa tra Biden e Bibi, anche il ministro della Difesa Gallant aveva esortato il premier e Smotrich a non esacerbare la situazione – né con Washington né con l’Anp – ma finora Netanyahu aveva preso le parti del ministro delle Finanze. 
 

  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)