L'editoriale del direttore
Come osservare il bicchiere mezzo pieno di fronte ai disordini mondiali
Da Kyiv al Mar Rosso. Le scorciatoie nazionaliste sono contro l’interesse nazionale. Una lezione per l’Europa da Davos
Si può provare a non vedere tutto nero quando vi è una guerra che non promette di finire presto, come in Ucraina? Si può provare a non farsi travolgere dal pessimismo quando vi è un conflitto di cui non si vede la fine all’orizzonte, come in medio oriente? Si può provare a non vedere il bicchiere mezzo vuoto quando, in mezzo a due conflitti, ne spunta anche un altro, come quello nel Mar Rosso? E si può provare a non essere angosciati dal mondo che ci circonda quando, oltre a tutto questo, vi è la possibilità che vi sia un altro conflitto ancora, a Taiwan, e che vi sia una nuova stagione di prezzi al rialzo, a causa delle tensioni del Mar Rosso, dopo due anni passati a misurare i lenti progressi dell’inflazione? L’operazione è effettivamente difficile, forse persino inutile, ma per chi volesse cercare una ragione per non deprimersi di fronte alle complicate sfide della contemporaneità suggeriamo di leggere la meravigliosa intervista concessa a Davos dall’ideologo di Joe Biden, Jake Sullivan, consigliere per la Sicurezza nazionale americana. Sullivan ammette che il momento è difficile, forse uno dei più complessi vissuti dalle democrazie dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Riconosce che in un’epoca di cambiamenti dirompenti non tutto può essere catalogato sotto la voce “fatti positivi”, perché è vero che vi sono paesi che hanno trovato un modo per sfruttare la tecnologia, promuovere lo sviluppo e approfondire legami tra loro in modo virtuoso. Ma è anche vero che in questo contesto vi sono attori pericolosi che, dice Sullivan, “mettono alla prova i limiti del nostro sistema internazionale”. Eppure, dice Sullivan, c’è un motivo per cui si può restare “ottimisti riguardo al futuro e alla nostra capacità di affrontare la sfida principale del nostro tempo”. E la sfida centrale, quella che ci permette di osservare il bicchiere mezzo pieno, è questa: “La competizione strategica in un’epoca di interdipendenza”.
L’espressione può apparire fumosa ma è la chiave giusta per capire la fase storica che stiamo vivendo: non esistono risposte nazionali per risolvere problemi globali. Sullivan suggerisce di riavvolgere il nastro e di concentrarci su qualche fotogramma. Febbraio 2022. Vladimir Putin ammassa 180 mila soldati al confine con l’Ucraina, circonda il paese su tre lati, si aspetta una vittoria rapida, immagina di poter inviare una colonna di carri armati a Kyiv, crede di poter rovesciare rapidamente il governo democraticamente eletto dell’Ucraina, di indebolire la Nato e di ripristinare la sfera di influenza della Russia. Due anni dopo, nulla di tutto questo è successo. Il popolo ucraino ha resistito a un avversario che ha un’economia dieci volte più grande della sua e il secondo esercito più forte del mondo. Attorno agli ucraini si è stretta una coalizione formata da cinquanta paesi. La Nato che Putin voleva indebolire si è rafforzata, ampliando i suoi confini. Gli ucraini hanno riconquistato più della metà del territorio che la Russia occupava dall’inizio del conflitto. E nel farlo hanno colpito la flotta russa, imponendo costi elevati all’esercito di Putin, che ora sta cercando armi dalla Corea del nord e dall’Iran, e hanno osservato con soddisfazione i passi in avanti compiuti nell’avvicinamento del proprio paese all’amata Unione europea.
Tutto questo è avvenuto perché anche paesi che un tempo pensavano di poter dare risposte nazionali a problemi globali e leader che un tempo pensavano di poter proteggere il proprio popolo con il protezionismo e non con il cappello del multilateralismo hanno capito che di fronte a problemi complessi non esistono scorciatoie nazionali ma esistono solo soluzioni sovranazionali, come era stato in fondo anche negli anni duri della pandemia. Lo stesso, dice Sullivan, sta avvenendo per difendere Israele, dove gli Stati Uniti, seppure con molta fatica, stanno lavorando “per mobilitare una risposta internazionale alla nuove aggressioni in medio oriente”. E lo stesso, anche se con più fatica, sta avvenendo nel Mar Rosso, dove gli attacchi degli houthi hanno spinto l’Amministrazione americana a intervenire per difendere la libertà di navigazione, in una delle vie navigabili più vitali del mondo, e dove un fatto che pochi hanno notato, ovvero che direttamente e indirettamente “più di 50 nazioni sono state colpite da quasi 30 attacchi” degli houthi, la settimana scorsa, gli Stati Uniti e il Regno Unito, con il sostegno di Australia, Bahrein, Canada e Paesi Bassi, hanno colpito una serie di obiettivi nello Yemen utilizzati dagli houthi per organizzare e lanciare questi attacchi. Con un’azione difensiva che ha fatto seguito a “un ampio coordinamento multinazionale” guidato dagli Stati Uniti tra 44 nazioni per condannare gli attacchi houthi, e che ha anche portato a una risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che ha condannato gli attacchi.
Mercoledì scorso, poi, su questo dossier, l’Amministrazione americana ha fatto di più. Ha inserito nuovamente gli Houthi all’interno delle organizzazioni terroristiche globali. Lo ha fatto per certificare la necessità di considerare le minacce apparentemente locali come minacce che hanno una dimensione globale, come in fondo è Hamas e come in fondo è l’Iran. E lo ha fatto seguendo la stessa logica con cui cerca di esercitare una forma di deterrenza anche nei confronti della Cina, paese con cui gli Stati Uniti, dice Sullivan, competono su più dimensioni, con cui non cerchiamo un conflitto, con cui vogliamo gestire la concorrenza in modo responsabile, per ridurre il rischio di errori di calcolo, ma paese che potendo minacciare la libertà dei suoi vicini deve essere monitorato con attenzione, ragione per cui, dice Sullivan, “abbiamo dato energia alle nostre alleanze e partnership nell’Indo-Pacifico e in Europa in modi che erano, francamente, inimmaginabili qualche anno fa: il lancio di Aukus, il patto di sicurezza trilaterale fra Australia, Regno Unito e Stati Uniti; i nuovi accordi con Vietnam, Filippine e India; una trilaterale stsSud; e due vertici con gli stati delle isole del Pacifico.
Problemi mondiali, risposte globali. Sintesi di Sullivan: “Penso che noi stessi abbiamo la capacità di decidere se fare un passo avanti in questo senso. Abbiamo gli strumenti per farlo. La domanda è: siamo pronti a metterli in pratica? Questa è una questione di volontà politica all’interno dei nostri paesi”. L’America lo sta facendo, dice Sullivan portando naturalmente acqua al mulino della candidatura di Biden. Si può dire lo stesso dell’Europa, che di fronte a uno scenario, come quello del Mar Rosso, dove i terroristi degli Houhti hanno contribuito a far alzare il costo dei noli, a far aumentare il costo dei container e a tagliare fuori dalle grandi rotte globali il Mediterraneo (peso de canale di Suez per l’Italia: 40 per cento dell’interscambio marittimo, 82 miliardi di euro) ha scelto di affidare a Stati Uniti e Gran Bretagna la difesa dell’interesse europeo e ha scelto ancora di tergiversare sull’aumento delle spese militari (il famoso due per cento del pil richiesto dalla Nato) in un contesto come quello attuale in cui vi sono ministri della Difesa, come quello tedesco, Boris Pistorius, che dicono, testualmente, di aspettarsi una guerra con la Russia entro i prossimi cinque-otto anni e di sentire il bisogno di prepararsi al possibile conflitto ripristinando la leva obbligatoria e dando la possibilità di reclutare nell’esercito anche uomini e donne senza passaporto tedesco? Problemi globali, risposte globali. Chi non lo capisce non è fuori dai giochi, ma semplicemente dalla realtà. Viva Sullivan.
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