Cosa ci dice il dibattito sul "fascismo" del discorso legittimante dell'Italia e dell'occidente
Non c’è accordo su quale sia la minaccia "fascista" da combattere perché ci manca un’identità generale cui fare riferimento. Le scelte degli altri paesi occidentali, quelle della Russia e l’idea europea che ancora manca
La periodica, cupa adunata di Acca Larenzia è diventata quest’anno un’occasione per fare “anti fascismo” contro un governo guidato da forze che non affondano le loro radici nel campo dei vincitori del 1945. Sarebbe interessante discutere cosa voglia dire ragionare oggi in questi termini, se vi sia e quale sia il “fascismo” odierno, e soprattutto sui limiti di uno schema politico incardinato su un “anti” che può servire a costruire un fronte temporaneo contro una minaccia comune ma non contiene in sé, per definizione, un progetto per il futuro. Quest’ultimo è in realtà elaborato singolarmente da ciascuna delle forze che quel fronte riunisce, forze che, come pensava Giustizia e Libertà, avrebbero perciò fatto meglio a dirsi post fasciste più che anti fasciste perché, come ricordava Vittorio Foa, “quella espressione di pura negazione” disconosceva la loro capacità di immaginare un mondo nuovo. Dal semplice anti fascismo, come da qualunque anti, si può quindi al massimo trarre un prezioso minimo comun denominatore, ma è questa oggi un’operazione assai complessa. A differenza degli anni Trenta del Novecento, non c’è accordo su quale sia la minaccia “fascista” da fronteggiare, a meno di credere che essa sia rappresentata da piccoli gruppi di fanatici nostalgici, e venga cioè da un passato che come tutti i passati non può semplicemente tornare. Il male, inteso come scelta a favore dell’oppressione e della sofferenza umane, si ripresenta in forme sempre nuove e diverse.
E’ anche ma non solo per questo più interessante e importante provare a capire cosa ci dice la polemica anti fascista a proposito della fragilità politica e territoriale – ma non morale e intellettuale – del discorso legittimante su cui è stata costruita la nostra Repubblica. E lo è ancor più allargare lo sguardo alle difficoltà, e all’importanza, dei discorsi legittimanti dei paesi del mondo di cui facciamo parte, vale a dire quell’occidente emerso nel 1945 dall’unione attorno agli Stati Uniti di alcuni paesi dell’Europa occidentale, un occidente che, come altri prima di esso, è andato com’è naturale disgregandosi ed esaurendosi col passare degli anni, come fanno tutti gli “oggetti” storici.
Farlo serve a sollevare un problema centrale per la nascita di un nuovo occidente, o almeno di un’Europa e di un’Italia nuove e migliori, riformando le tre buone identità (occidentale, europea e dell’Italia anti fascista) che ci hanno regalato decenni tanto migliori dei precedenti, una nascita per nulla scontata, ma affidata alla nostra capacità di pensare e di agire. I discorsi legittimanti danno infatti sostanza e forza agli stati, alle unioni e alle alleanze tra stati, determinandone carattere e azioni. E orientano la disposizione e l’identità “generale” dei loro cittadini, spingendoli per esempio verso l’apertura o la chiusura, vale a dire verso il rifiuto della vita e del suo inarrestabile scorrere, o l’accettazione e la navigazione politica di essa.
Questa loro capacità e quindi la loro importanza ci è stata appena ricordata dalla decisione russa di invadere l’Ucraina e dalla scelta dei suoi abitanti di resistere, malgrado l’altissimo prezzo che ciò comportava. Dopo il 1991 sia la Russia che l’Ucraina hanno infatti accompagnato la loro ricostituzione con la ricerca di un discorso legittimante che gli desse senso e guida.
Kyiv si impegnò in uno sforzo di costruzione nazionale capace di unire cittadini molto diversi, anche perché privilegiare una lingua e una religione era difficile, visto che nel paese etnicità, lingua e religione spesso non coincidevano. Le opzioni possibili erano due. La prima era costituita dalla carestia sterminatrice del 1932-1933, l’Holodomor, voluto da Stalin per domare l’Ucraina sovietica, piegandone la base contadina. La seconda opzione, più limitata geograficamente e per i numeri coinvolti, era invece rappresentata dalla resistenza opposta dall’Ucraina occidentale all’occupazione sovietica dopo il 1944. Il suo movimento partigiano è stato forse il più compatto e duraturo dell’Europa del XX secolo. Ma oltre a essere un’esperienza più circoscritta, essa era compromessa dalla vicinanza con la Germania nazista su cui il nazionalismo ucraino occidentale si era orientato contro l’ordine di Versailles, come avevano fatto tutti i nazionalisti sacrificati da esso, fossero essi palestinesi, egiziani, fiamminghi, indonesiani, o indiani. A rendere difficilmente utilizzabile questa opzione era quindi il suo disumano nazionalismo integrale, di cui il fascismo è un’incarnazione, che aveva causato la rovina dell’Europa e strideva col contesto culturale e ideologico in cui il nuovo stato cercava di inserirsi.
L’Holodomor è diventato il fondamento che ha orientato l’Ucraina e il suo sentimento nazionale in modo nuovo
Malgrado esitazioni e tentennamenti, grazie anche alle scelte del presidente Viktor Yushchenko, l’Holodomor divenne alla fine il fondamento del discorso legittimante della nuova Ucraina. E prendere a simbolo un genocidio significò orientare il paese e il suo sentimento nazionale in modo nuovo, abbandonando il nazionalismo integrale e presentandosi come vittima dell’oppressione. La nuova Ucraina si è così sentita vicina ad altri paesi-vittima e non ha esitato anche per questo a resistere a un nuovo tentativo di negare le sue scelte e la sua libertà, ispirato questa volta al nazionalismo grande russo invece che al socialismo.
Nella Russia di Boris Yeltsin e poi di Vladimir Putin la scoperta, grazie alla glasnost’ gorbacheviana, del peso della storia sovietica – marcata da plurimi episodi di violenza genocidaria – rese altrettanto imperativa la necessità di trovare un “passato utilizzabile” per rimediare al senso di mancanza di radici e di valori, e al concomitante sentimento di umiliazione causato dal crollo del 1991. Il passato fu scandagliato alla ricerca di alternative, da Pietro il grande alla rivoluzione del febbraio 1917, prima che la scelta cadesse altrettanto rapidamente sulla “Grande guerra patriottica” e sulla vittoria del 1945. Il processo era già in fase avanzata nel 1993, quando a dicembre gli ultranazionalisti di Vladimir Zhirinovsky ottennero più voti di qualunque altro partito, e concluso nel marzo 1995 quando Yeltsin proclamò il 7 novembre, già anniversario della Rivoluzione d’ottobre, giornata della gloria militare russa.
La Russia ha scelto la vittoria del 1945, cosa forse inevitabile che però ha rilegittimato Stalin
Si trattò di una scelta forse inevitabile: l’evento era veramente popolare, e i leader russi potevano costruire sulle politiche perseguite da Leonid Brezhnev a partire dal 1965. Ma scegliere la guerra e la vittoria, interpretata come trionfo e riaffermazione del potere di Mosca, significava anche rilegittimare Stalin e il nazionalismo grande russo, nonché promuovere le caratteristiche peggiori della tradizione russa: la sottomissione al potere, l’esaltazione della gloria militare, il sospetto per gli stranieri e l’occidente. In altre parole, voleva dire concimare il terreno su cui sarebbero poi cresciuti Putin e il putinismo.
In quegli stessi, cruciali anni l’Italia della “seconda Repubblica”, anch’essa a suo modo paese post sovietico come notò acutamente Cossiga, si trovò a fare i conti con la crisi del terzo discorso legittimante della sua storia unitaria. Ciascuno dei tre sistemi che si erano succeduti nel nostro paese ne aveva infatti avuto uno suo, tutti diversamente deboli. Quello risorgimentale era minato dall’estraneità di contadini, chiesa e larghe aree del paese. Quello del 1918, meno attraente ma più solido perché radicato in una terribile e vittoriosa esperienza di massa, fu piagato dall’appropriazione che ne fecero fascismo e nazionalismo e poi travolto dalla catastrofe cui il loro connubio portò il paese. Il terzo, quello della Resistenza, il migliore dal punto di vista di valori che hanno infatti col tempo conquistato anche ex nemici di destra e di sinistra, era reso fragile dalla scarsa partecipazione di tanta parte del paese a quell’esperienza e dall’essere legato a quella che fu anche una guerra civile. Non stupisce quindi che già nel 1994, indebolito anche da chi lo rivendicava a una sola parte, esso mostrasse crepe visibili, simboleggiate dall’inclusione degli eredi degli sconfitti del 1945 nel nuovo blocco di maggioranza.
Per l’Italia riprendere le polemiche del passato, invece di lanciare una sfida sul futuro, è un errore, oltre che un peccato
Sarebbe stato quindi necessario lavorare a elaborarne uno nuovo e più inclusivo, che ne salvasse i caratteri di apertura e libertà, profittando delle riflessioni di Gianfranco Fini e della sua Alleanza nazionale e del clima generalmente favorevole alla liberaldemocrazia di quel decennio. Non era cosa facile, anche perché l’Italia sperimentò allora – primo grande paese occidentale a farlo – il nuovo tipo di crisi legato al rallentamento dello sviluppo e all’uso del debito per prolungarne i benefici. Ma comunque, malgrado più o meno timidi tentativi, destra, sinistra e nuovo centro berlusconiano preferirono continuare a rivolgersi al passato e a rivivere i suoi conflitti e i suoi dibattiti, piuttosto che guardare al mondo evidentemente nuovo in cui si era già entrati, sviluppando un nuovo discorso legittimante capace di rispondere alle sue sfide.
Questa scelta fu permessa dai 20 anni di calma relativa seguiti al 1991. Ma se essa era già ottusa negli anni Novanta, a partire dal 2008 è diventata potenzialmente suicida, per la sinistra e il centro in primo luogo, ma anche per gli eredi degli sconfitti del 1945. Anche per questo riprendere oggi le polemiche del passato, invece di lanciare una sfida sul futuro, è un errore, oltre che un peccato. La nostra Costituzione – base della nostra terza legittimazione – non era infatti solo “anti fascista”, ma soprattutto post fascista perché apriva a un mondo nuovo. Ed è guardando alle caratteristiche di quello realmente venuto, in buona parte diverso da quello da essa immaginato, alla crisi demografica e alle difficoltà dello sviluppo, alle sfide dell’immigrazione e dell’integrazione, alla crisi del mondo bianco e dell’occidente del 1945, e quindi delle basi della liberaldemocrazia, che essa andrebbe oggi ripensata, immaginando una nuova Repubblica che la crisi demografica ci costringe per esempio a concepire aperta, ponendo con forza il problema di a chi aprire, visto che non siamo più forti che accolgono ma deboli che hanno bisogno di tanti altri.
Nel 1945 la Germania si trovò a fronteggiare la catastrofe senza nemmeno potersi appellare a una Resistenza che era stata infinitamente più limitata di quella italiana. Non per caso alcuni dei suoi migliori intellettuali elaborarono un discorso legittimante fondato sul “patriottismo costituzionale”, basato sulla negazione dell’esperienza storica tedesca e quindi privo di riferimenti nazionali. Ma proprio per questa assenza di ancoraggio storico esso era in prospettiva ancor più debole del nostro dal punto di vista identitario (nel 1989 i tedeschi riscoprirono di essere ein einziges Volk, e non un popolo costituzionale qualunque), ancorché più forte da quello formale e ideale.
In questa prospettiva, si comprende perché il “patriottismo costituzionale”, adottabile in teoria da qualunque “buono” stato, sia diventato, a suo modo, il discorso legittimante prevalente anche nell’Unione europea. Dico a suo modo perché, benché priva di una costituzione dopo la bocciatura del progetto del 2005, l’Unione è paradossalmente tenuta insieme oltre che dall’interesse economico e individuale da un fortissimo quadro di regole giuridiche ispirate ai princìpi liberaldemocratici, che ne costituiscono la costituzione materiale.
Lo si comprende perché l’Unione, nata nel 1992 e quindi anche formalmente stato post sovietico, non è più la piccola Europa occidentale alleata degli Stati Uniti. Grazie alla coraggiosa decisione di aprirsi all’Europa orientale, essa è piuttosto un “blocco continentale” che unisce chi è vissuto al di qua e chi al di là del muro, sperimentando due ventesimi secoli diversi. Essa fatica quindi a trovare nel suo passato delle esperienze comuni unificanti e la qualità dei valori liberaldemocratici, che pure e per fortuna è riuscita finora a tenerla insieme, non basta a fondare il discorso legittimante europeo. Quest’ultimo avrebbe bisogno di radicarsi in una esperienza storica capace di nutrirlo – come l’Holodomor per l’Ucraina, la vittoria del 1945 per la Russia, o il 1789 per la Francia – e alla sua mancanza non possono supplire i ripetuti appelli retorici a inesistenti passati comuni capaci di riappacificare un’Europa che nel Novecento è stata divisa prima dai nazionalismi e poi dalla Guerra fredda.
Quali potrebbero essere le caratteristiche di un nuovo discorso legittimante europeo? Esso dovrebbe prima di tutto pensare al presente, abbandonando il principio autolesionista della sussidiarietà e rivendicando orgogliosamente quello che l’Unione fa per i suoi cittadini, in Italia e in Francia, come in Grecia (salvata dagli aiuti europei malgrado una retorica disastrosa), in Polonia o in Ungheria. Non è una caso che chi sta fuori di essa cerchi di entravi e chi ne è uscito se ne sia in larga parte pentito.
Ma occorre anche cercare l’esperienza storica su cui radicarlo, un compito non facile il cui esito, nelle condizioni europee, non è affatto garantito. Lo dimostra il già ricordato fallimento del testo del 2005. Il suo preambolo individuava quel radicamento nelle “eredità culturali, religiose e umanistiche dell’Europa, da cui si sono sviluppati i valori universali dei diritti inviolabili e inalienabili della persona, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, e dello Stato di diritto”. Erano parole vere, che si appellavano però a un passato lontano, e anche parole proterve, perché trascuravano quel che l’Europa era stata per un mondo certo reso migliore dalla sua cultura, ma che essa aveva dominato e alle cui orecchie quindi esse stridevano. Il testo liquidava inoltre in poche battute il rovinoso XX secolo europeo, cui è invece obbligatorio guardare.
L’Europa è unita dall’esperienza profonda della sconfitta ed è da questa che dovrebbe ripartire
Se lo si fa, si vede oggi un’Europa che, dopo l’abbandono di Londra e le dichiarazioni di odio di Mosca, le sue due capitali vincitrici di quel secolo, è oggi unita dall’esperienza profonda della sconfitta. In primo luogo quella nella Seconda guerra mondiale, quando quasi tutte le sue capitali furono prese in successione da due eserciti di altri paesi; ma anche, a ovest, quella della decolonizzazione, che pose bruscamente fine al secolare dominio europeo sul mondo (che questa fosse anche una conquista morale è altra storia); e quella della tragica esperienza del socialismo a est. Ci sarebbe quindi da chiedersi se nell’immaginare una futura Costituzione europea non convenga partire proprio dalla sconfitta, che è la principale esperienza fondativa del nostro continente nel XX secolo.
Certo, costruire un discorso legittimante sulla sconfitta non è facile, ma ragionare sulle sue cause e sulla via di una redenzione che ci ha dato pace e benessere renderebbe anche più semplice riconoscere le nostre colpe, aiutandoci a parlare con chi abbiamo oppresso. E vedere nel ripudio degli egoismi nazionalisti e nella cooperazione la causa dei decenni migliori del nostro Novecento ci aiuterebbe anche ad affrontare nel modo giusto la crisi delle nostre liberaldemocrazie, innescata dal collasso demografico e dal rallentamento dello sviluppo.
Ma se il partire dalla sconfitta può aiutarci a diventare più umili e intelligenti, è difficile che possa costituire l’unico nucleo di un forte discorso legittimante. Quest’ultimo potrebbe essere potenziato, in positivo, dalla legittima rivendicazione dell’impatto benefico dell’esperienza europea sul resto del mondo, un impatto che non è legato solo a valori che non tutti sono pronti ad accettare e che spesso sono stati viziati dall’ipocrisia, ma anche alle conquiste del pensiero libero e di una scienza e di una tecnica nati in Europa e a cui tutti ricorrono con entusiasmo.
Va infine da sé che la battaglia più drammatica e dalle conseguenze potenzialmente più dirompenti in materia di discorsi legittimanti è, almeno nel nostro mondo, quella che si combatte oggi negli Stati Uniti. Riuscirà quel grande paese, che è stato capace di rifondare un occidente luminoso malgrado le sue tante ombre, ad accettare la fine del secolo americano per contribuire, attraverso la propria ridefinizione, alla nascita di un nuovo occidente? Oppure prevarranno discorsi di supremazia e di chiusura, di make America great again? Buona parte della qualità della nostra vita dipenderà da questo, ma è solo un motivo in più per fare al meglio possibile quel che di essa dipende da noi, in Italia e in Europa.