In India la "questione di Ayodhya" e del tempio di Ram, più che religiosa, è un business
La stampa internazionale e l'opposizione riduce tutto a pro-islam o anti-islam, ma nel tempio indù appena inaugurato da Modi c'è molto di più
Tra fuochi d'artificio, canti e dirette televisive a reti più o meno unificate si celebra in India l'inaugurazione del nuovissimo tempio di Ram ad Ayodhya, città natale del dio. E mentre l'India si colora di arancione al grido di “Jai Shri Ram” (lunga vita al dio), i canali internazionali e parte dell'opposizione indiana celebrano invece il funerale del secolarismo in India. Il vicino Pakistan, che si occupa più degli affari indiani che dei propri, condanna con un comunicato ufficiale la consacrazione del tempio gridando, tanto per cambiare, all'islamofobia, in buona compagnia di svariati canali internazionali. Perché Ayodhya, per moltissimi anni agli occhi della stampa internazionale è stata una "questione" più che un luogo reale.
La "questione di Ayodhya" comincia con un lontano episodio di cronaca: il 6 dicembre 1992 centinaia di integralisti hindu radevano al suolo la Babri Masjid, la principale moschea della città costruita nel 1529 in onore di Babur, fondatore dell’impero Moghul, per costruire al suo posto un tempio dedicato a Ram. L’ondata di violenza scatenatasi per tutta l’India di conseguenza è costata nel corso degli anni più di cinquemila vite umane e centinaia di processi in cui è stato coinvolto (e assolto) anche il premier Narendra Modi. Per riassumere i termini della questione: il 22 settembre 1949, un simulacro di Ram appariva misteriosamente all’interno della principale moschea di Ayodhya. La cosa veniva interpretata dagli induisti come una specie di "reclamo" da parte del dio sul suolo del suo luogo di nascita. Nasceva una disputa religioso-catastale tra musulmani e hindu, e di conseguenza le autorità civili dichiaravano il luogo “proprietà contesa” apponendo i sigilli.
Nel 1992, la disputa culminava nella distruzione della moschea e i relativi scontri. La disputa si è trascinata, con perizie e contro-perizie da parte dell'Archeological Survey of India, fino al 2019, quando la Corte Suprema ha emesso una più o meno salomonica sentenza: ha attribuito il possesso del terreno agli induisti, e assegnato ai musulmani un altro lotto di terra per costruire una moschea. Alla costruzione del tempio, finanziato in gran parte dai devoti, hanno lavorato artigiani provenienti da ogni parte dell'India: per molti si tratta del coronamento del sogno di una vita. Eppure, a finire in prima pagina, come capita ormai troppo spesso, sono soltanto le polemiche e la polarizzazione estrema in cui tutto viene interpretato e letto. Perché le discussioni in India o sull'India, invece di focalizzarsi sui temi caldi per il paese, come l'economia o i posti di lavoro, sono sempre e soltanto focalizzate su "pro-musulmano, anti-musulmano".
Curiosamente, di tutto ciò ad Ayodhya non c'è e non c'è mai stata traccia. Città sacra, per diversi motivi, agli induisti, ai musulmani, ai buddhisti e ai gianisti, Ayodhya fonda difatti la sua economia quasi esclusivamente sul business religioso. E Ram, in particolare, si è rivelato una inesauribile fonte di guadagno per tutti: sacerdoti, commercianti, albergatori, guide turistiche e perfino mendicanti, di qualunque religione essi siano. Ad Ayodhya esistono 7001 templi (e 60 moschee), nella maggior parte dei quali si lavora quasi esclusivamente per garantire assistenza ai viaggiatori. Il flusso di denaro, alimentato dalle donazioni dei pellegrini e dai loro acquisti, è costante e ininterrotto e destinato a crescere in misura esponenziale con la costruzione del tempio. Trattori, autobus, carri trainati da buoi, macchine e treni scaricano a intervalli più o meno regolari devoti e agitatori pronti a portare il loro contributo alla gloria di Ram o ai suoi detrattori. E mentre infuriano le polemiche, ad Ayodhya musulmani e induisti si spalleggiano e fanno da anni fronte comune difendendosi l'un l'altro ogni volta che seguaci dell'una o dell'altra causa cercano di turbare la quiete cittadina e la sua "divina" prosperità. La vera e unica vittima di queste celebrazioni, dicono, non è stato il secolarismo: ma le tonnellate di petali di rosa piovute su tutta la città.
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