In medio oriente
Il prezzo della pace e il dilemma di Israele
La questione è la stessa da cent’anni: come poter vivere in pace in medio oriente. I vantaggi economici basteranno agli arabi per ottenere sicurezza e convivenza?
Tra le tante colpe, Benjamin Netanyahu viene accusato di aver consentito in questi anni il regolare arrivo di valigie piene di soldi portate da funzionari del Qatar per Hamas, di essersi illuso di poter comprare la tranquillità e di aver invece favorito la costruzione dei tunnel del terrore. Il dilemma del movimento sionista prima e di Israele dopo, da cent’anni è in fondo sempre lo stesso. Come poter vivere in pace e sicurezza in medio oriente. Gli arabi accetteranno l’esistenza di Israele in virtù dei vantaggi economici e umani conseguenti alla pace oppure la pace sarà possibile soltanto con la forza dimostrando loro che non possono distruggere Israele? Prima ancora della nascita dello stato ebraico, con il diffondersi del sionismo nei territori dell’est Europa e in Russia permeati da ideali socialisti e comunisti, con la decisione del sesto congresso sionista di rifiutare l’ipotesi britannica di costituire una patria ebraica in Uganda nel 1903 e anche a fronte del pogrom antiebraico del 1929 a Hebron e della rivolta araba degli anni Trenta, il dubbio fu sempre questo.
La componente del sionismo influenzata dalle interpretazioni marxiste riteneva che operai e lavoratori ebrei e arabi si sarebbero dovuti unire contro il comune avversario, il capitalismo, individuato da un lato nel colonialismo inglese e dall’altro nei latifondisti arabi (che sfruttavano i lavoratori arabi e che vendevano a caro prezzo i propri terreni al Fondo nazionale ebraico, il Keren Kayemet le Israel). I sionisti revisionisti, fautori del liberalismo in economia e guidati da Zeev Jabotinsky, proponevano invece la dottrina del “muro di ferro”: solo la piena dimostrazione di forza militare avrebbe fatto desistere il mondo arabo, il cui nazionalismo si era manifestato come reazione al sionismo, dal sogno di buttare gli ebrei a mare. I revisionisti accusavano i socialisti di ingenuità e arroganza, di ridurre tutto a questioni economiche e di non riconoscere i sentimenti arabi: “Gli arabi non svenderanno il proprio orgoglio nazionale e religioso per quattro soldi”. Nel 1947 a Londra, il segretario della Lega araba, Azzam Pasha, disse ad Abba Eban, primo ambasciatore di Israele alle Nazioni Unite e successivamente ministro degli Esteri, che non vi era disonore ad accettare qualcosa se si viene costretti dalla forza, ma che spontaneamente gli arabi non avrebbero accettato l’esistenza di uno stato ebraico.
Dai sionisti marxisti nasceranno vari partiti della sinistra israeliana, dai revisionisti prenderanno il via i diversi movimenti che finiranno per confluire nel Likud di Menachem Begin, Itzhak Shamir e oggi del premier Netanyahu. La divisione non è tuttavia così netta. David Ben Gurion – pur formatosi in ambito marxista, leader del governo e del partito di sinistra egemone per decenni – per realismo fece di fatto propria l’impostazione revisionista riguardo alla pace col mondo arabo, perseguendo la necessità di una superiorità militare, proponendo allo stesso tempo una proficua convivenza per tutta la regione. Così nel 1948, nella Dichiarazione di Indipendenza, “nel mezzo dell’attacco” che in quelle stesse ore le veniva sferrato, Israele tendeva la “mano di pace e di buon vicinato a tutti gli stati vicini e ai loro popoli” e faceva “loro appello affinché stabilissero legami di collaborazione” e si dichiarava “pronto a compiere la sua parte in uno sforzo comune per il progresso del medio oriente intero”. Con la guerra dei Sei giorni nel giugno 1967 e l’improvvisa conquista di enormi territori, le Nazioni Unite su proposta israeliana introdussero nell’arena il concetto di “territori in cambio di pace”, la via di un compromesso territoriale col mondo arabo per arrivare a un accordo. La leadership israeliana riteneva di aver oramai dimostrato una superiorità bellica (dottrina del muro di ferro) e di poter convincere finalmente gli arabi che la pace avrebbe portato dei vantaggi, questa volta anche in termini territoriali. Il mondo arabo rifiutò. Nel 1964 era nata l’Olp e nel settembre 1967 a Kartoum la Lega araba pronunciò i famosi tre “no”, no alla pace con Israele, no a trattative con Israele, no a riconoscere Israele. L’approccio territoriale, sposato infine anche dalla destra israeliana giunta al governo in seguito alla guerra del Kippur, portò invece alla pace con l’Egitto nel 1979 in cambio della restituzione della penisola del Sinai. Con i palestinesi, la “finestra di opportunità’ – come fu definita dall’ex capo di stato maggiore e primo ministro laburista Ytzhak Rabin – si manifestò dopo la caduta del muro di Berlino e la crisi dell’Unione sovietica (le guerre contro Israele erano state combattute dagli stati arabi con armi di fabbricazione sovietica) e dopo l’indebolimento dell’Olp provocato anche dall’aver preso le parti di Saddam Hussein, invasore del Kuwait nella prima guerra del Golfo.
Nel 1991 si svolse la conferenza di Madrid (il governo israeliano era allora guidato dalla destra di Shamir) e due anni dopo si raggiunsero gli accordi di Oslo firmati dai leader della sinistra israeliana, Rabin e Shimon Peres, e dal leader palestinese, Yasser Arafat, che sancirono la nascita dell’Autorità nazionale palestinese. Un processo che continuò anche sotto il primo governo Netanyahu con il ritiro da Hebron e l’ulteriore passaggio di territori sotto controllo palestinese con il vertice di Wye Plantation. Ma l’apice di questo tentativo si raggiunse nel 2000 a Camp David, dove il nuovo primo ministro israeliano, il laburista Ehud Barak, offrì un accordo di pace complessivo ad Arafat, che rifiutò senza nemmeno provare a rilanciare. Al rientro, scendendo dall’aereo, il leader palestinese mostrò le dita a V in segno di vittoria e la firma che pose fu quella sul rilascio dei detenuti palestinesi accusati di terrorismo. “Milioni di martiri marceranno su Gerusalemme”. tuonò in quei giorni inneggiando alla jihad dal suo quartier generale a Ramallah. Da lì a poco, sfruttando la scusa della passeggiata a Gerusalemme sulla spianata delle moschee (e del Tempio ebraico) da parte del leader dell’opposizione Ariel Sharon, scoppiò la seconda Intifada, quella dei terroristi kamikaze.
Eppure i negoziati proseguirono, Israele accettò i “Parametri” di Bill Clinton, Arafat li rifiutò e un’ulteriore proposta di pace fu reiterata pochi mesi dopo sul Mar Rosso a Taba da Barak e fu di nuovo respinta. E venne riformulata nuovamente nel 2007 ad Annapolis e di nuovo nel 2008 dal primo ministro israeliano Ehud Olmert al nuovo presidente dell’Anp, Abu Mazen. Nel 2009, nel discorso di Bar Ilan, il primo ministro Netanyahu accettò l’ipotesi dello stato palestinese e nel 2014 il documento coi princìpi per un accordo proposto dall’Amministrazione americana del presidente Barack Obama tramite il segretario di Stato John Kerry. Israeliani e americani ottennero solo rifiuti. I leader palestinesi non erano disposti a firmare un accordo di pace che implicasse un compromesso, la nascita dello stato palestinese con la rinuncia al diritto al ritorno dei discendenti dei profughi palestinesi del 1948 dentro ai confini israeliani (nelle proposte di pace, Israele era disposta a dare il diritto al rientro nel futuro stato palestinese, ma non dentro i propri confini, se non in numero limitato, poiché questo avrebbe comportato, accanto alla nascita di uno stato palestinese a Gaza e in Cisgiordania, la trasformazione della stessa Israele in uno stato a maggioranza araba).
L’accusa di aver svenduto la terra dell’islam era un rischio che Arafat prima e Abu Mazen dopo non volevano o potevano più correre. La finestra si era chiusa. Il dilemma in fondo era lo stesso dei primi del Novecento: i palestinesi erano disposti ad avere i vantaggi della pace rinunciando al proprio orgoglio di ottenere tutto oppure la pace poteva essere conquistata solo tramite la forza col riconoscimento della impossibilità di distruggere Israele? I fondamentalisti di Hamas (giunto nel frattempo al potere a Gaza dopo il ritiro unilaterale israeliano), Hezbollah e Iran hanno mantenuto vivo il sogno di poter eliminare l’onta dell’esistenza di Israele. Gli scontri con Hamas hanno comportato successive operazioni belliche, terribili nella loro devastazione, l’ultima delle quali, nel 2021, si concluse con un accordo mediato tra Egitto, Qatar e Israele che, come emerse nelle settimane successive, comportava l’invio di soldi dal Qatar a Gaza e questo fu festeggiato da tutti i media internazionali come un positivo “passo avanti per allentare le tensioni”, come lo definì per esempio l’Osservatore Romano. In questo accordo, riemergeva l’idea vecchia di cento anni secondo cui la tranquillità e la pace potevano essere comprate con benefici economici. In questi giorni, Israele – pur tra tensioni interne al gabinetto di guerra relative a pause del conflitto per ottenere la liberazione degli ostaggi e a toni da campagna elettorale – sta perseguendo l’altra opzione, infliggere una sconfitta militare completa, questa volta nei confronti di Hamas. Se riuscirà, la finestra di opportunità per la pace potrà riaprirsi.