La Srebrenica africana, in Sudan

Cecilia Sala

Nove mesi di massacri a luci spente: stupri etnici e almeno diecimila fucilati. Il Darfur del 2023 assomiglia a quello, rimasto impunito, del 2003

Gli uomini e le donne da uccidere si riconoscono dal colore della pelle più scuro che indica l’appartenenza a una minoranza etnicamente africana in un paese etnicamente arabo. I miliziani delle Forze di supporto rapido e i loro alleati chiamano i sudanesi più scuri “schiavi”, e nel 2023 ne hanno ammazzati a migliaia andandoli a prendere casa per casa, mentre erano in coda dentro le panetterie o a pregare nelle moschee. Soltanto nella città di duecentomila abitanti di El Geneine, in Darfur, in Sudan, sono state uccise tra le diecimila e le quindicimila persone. Le hanno radunate, hanno separato gli uomini dalle donne, le hanno fucilate perché nere. Il rapporto degli esperti incaricati dall’Onu di indagare sui massacri in Sudan, pubblicato nel fine settimana, smentisce le stime molto conservative delle stesse Nazioni Unite secondo cui i morti della guerra cominciata il 15 aprile del 2023 sarebbero, in totale, dodicimila.

   

Nella capitale Khartoum i colpi d’artiglieria sono arrivati fino alle scuole dei comboniani del centro, in tutto il paese gli sfollati sono tra i sette e i nove milioni, la guerra ha contagiato tutte le regioni ma in una striscia sottile di terra nel sud ovest del Sudan, dove abitano quasi due milioni di persone – il West Darfur – c’è, dentro la guerra, qualcosa di peggio: una campagna di massacri e stupri etnici. Le ragazze sopravvissute e scappate a piedi, che hanno superato il confine con il Ciad, dalle tende nei campi profughi hanno raccontato le violenze sessuali degli uomini armati che avevano intenzione di metterle incinte “perché così avremmo avuto figli meno neri”. Idriss è una di loro e ha raccontato alla Reuters di essersi salvata soltanto perché aveva il ciclo, e di aver salvato anche sua sorella più piccola riuscendo a convincere i miliziani arabi che fosse malata di Aids. Le altre non si sono salvate. Un’attivista sudanese di etnia africana di 28 anni è stata legata in un casolare abbandonato e stuprata per ore. Una ragazza di 19 anni è stata stuprata da quattro miliziani per tre giorni a El Geneine. Una ragazza di 24 anni è stata violentata in casa sua, davanti a sua madre. Su undici profughe scappate in Ciad dal Darfur e intervistate da Reuters: nove erano state stuprate.

 

Gli autori della carneficina a El Geneine sono gli stessi responsabili dei trecentomila morti in Darfur dell’inizio degli anni Duemila. Sono gli ex janjaweed – cioè “i demoni a cavallo” – che hanno cambiato il loro nome in Forze di supporto rapido per travestirsi da soldati presentabili ma non hanno cambiato i loro metodi. Li comanda il generale Mohamed Hamdan Dagalo detto “Hemedti”, che ha dichiarato guerra al suo ex socio, il generale dell’esercito regolare Abdel Fattah Abdelrahman Burhan, nove mesi fa e che ormai controlla quattro dei cinque stati del Darfur.    

  

Sono stati nove mesi di massacri a luci spente. In Sudan da aprile c’è un conflitto non raccontato  anche perché i giornalisti internazionali non possono entrare nel paese e quelli locali non possono lavorare – la maggior parte dei media è chiusa e i reporter sono stati minacciati, arrestati e in alcuni casi uccisi. La guerra  in corso è tra due generali illegittimi e senza popolo, non la si può chiamare una guerra civile perché i militari hanno estromesso i sudanesi dal potere subito dopo che, nel 2019, organizzati in comitati di quartiere, in sigle sindacali e universitarie, in associazioni di medici, di imprenditori e di avvocati avevano fatto una rivoluzione soprannominata “la primavera” e avevano deposto il dittatore Omar al Bashir.

 

Oggi gli osservatori dell’Onu scrivono che sono “credibili” le accuse secondo cui gli Emirati Arabi Uniti stanno spedendo armi alle Forze di supporto rapido (Rsf) “più volte alla settimana” attraverso il passaggio, da cui entrano anche un po’ di aiuti umanitari, di Amdjarass, nel nord del Ciad al confine con il Sudan. Dal primo giorno di bombe i sudanesi, che sanno di non avere alleati e di essere circondati soltanto da nemici, bruciavano le foto dei leader emiratini nelle piazze. A dicembre ha chiuso anche la missione politica delle Nazioni Unite in Sudan. A gennaio, il presidente del Sudafrica, Matamela Cyril Ramaphosa, ospitava a casa sua il generale Hemedti mentre annunciava che avrebbe trascinato Israele davanti alla corte dell’Aia con l’accusa di genocidio. Hemedti viaggia a Mosca, negli Emirati, in Uganda e in Sudafrica e si comporta come se fosse già il vincitore di una guerra che si combatte, di nuovo, con gli stupri e i massacri etnici – rimasti impuniti nel 2003 e dunque ricomparsi identici, a opera degli stessi carnefici, nel 2023.

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