Dopo il 7 ottobre
Evadere dall'eterno presente per conoscere l'eroismo della democrazia israeliana
Recuperare la storia e difendere una democrazia multietnica come Israele dovrebbe essere la prima lezione necessaria contro l’ammasso umanitarista
Quanto valgono due dozzine di soldati israeliani morti in guerra contro Hamas in mezzo alla falcidie di civili e bambini palestinesi? Quasi niente, credo, per quei ragazzi ai quali, come ha detto ieri alla Camera Ivano Dionigi, umanista e accademico, “abbiamo staccato la spina della storia confinandoli in un eterno presente”. Non voglio fare, non ne ho titolo né voglia, dell’umanismo a prezzi stracciati. Ma l’appello composto e solenne del superprof a riconsiderare il notum accanto al novum, la sua idea che la rete dello spazio planetario ha divorato il senso del tempo e dell’esperienza, e l’opportuna menzione di T. S. Eliot: dov’è la conoscenza che abbiamo perduto nell’informazione? di tutto questo un qualche uso andrà pur fatto. E la fine della storia, questo vivace e sghembo ossimoro che ormai va interpretato con congruo pessimismo, visto che la storia è ripartita ma una certa idea della fine si approssima, mi fa pensare non tanto al delirio dell’eroismo, che pure un posto nella memoria dovrebbe averlo, perché “dulce et decorum est pro Patria mori”, ma all’equivoco sinistro sul valore di persone e cose in un mondo in fiamme.
Per molti la battaglia di Gaza è ormai come la battaglia di Algeri. I soldati israeliani morti sono occupanti, coloni e difensori potenziali di altri coloni, in una parola agenti in divisa dell’oppressione. Ai tempi della decolonizzazione algerina una parte maggioritaria della gauche si faceva “portatrice di valigie”, cioè teorizzava il fiancheggiamento materiale dell’insurrezione antifrancese per l’indipendenza. Albert Camus rispondeva che comunque stessero le cose non desiderava vedere sua madre algerina e francese fatta a brandelli in un mercato della Casbah. Oggi il rischio è che i portatori di post, per una Palestina libera dal fiume al mare, irridano come ipocrisia dei dominatori, altro che 7 ottobre e simili bellurie, le lacrime di una nazione in lotta per esistere dedicate ai riservisti, che perdono la vita mentre combattono metro per metro quando il mondo delle anime belle li accusa, con il timbro benemerito dell’Onu e della Bbc, di fare tabula rasa del nemico senza preoccuparsi delle conseguenze umanitarie. Israele non è una potenza coloniale, è una democrazia multietnica a base ebraica, focolare nazionale dei dispersi dei millenni, nata per la tigna di esodati e reduci dei campi di sterminio, nata per volontà della comunità internazionale, sopravvissuta per il coraggio dei suoi riservisti che combattono dal 1948.
Una nazione che agisce secondo regole anche in guerra, e si mortifica e si punisce quando le scansa o le viola combattendo contro un nemico fanatico, teocratico, islamista che vuole la sua distruzione e agisce con la vanga sul collo dei civili dei kibbutzim per poi ripararsi dietro donne, vecchi, bambini e statistiche dell’Unrwa. Quelle statistiche sono una tragedia. Persone e cose distrutte sono una tragedia. Ma senza la storia, la memoria, la fatica del discernimento, sono l’eterno presente a cui abbiamo confinato le avanguardie giovanili di un’opinione internazionale che fa presto a scambiare in rete e nei campus, estensione della rete, gli ebrei per i nazisti, i patrioti per colonizzatori, i soldati venuti a difendere sé stessi e il loro popolo per oppressori colpiti da una giusta resistenza. Evadere dall’eterno presente dell’informazione, recuperare la conoscenza dei fatti e celebrare l’eroismo di una democrazia in pericolo di vita dovrebbe essere la prima lezione del seminario del professor Dionigi e degli umanisti che non portano la loro testa all’ammasso dell’umanitarismo.