Tutti i "no" di Hamas che ostacolano il cessate il fuoco
Dalla prima tregua a oggi, i rifiuti di Sinwar stanno estendendo la guerra e rompono le proposte di accordo
“Stiamo arrivando” è l’avvertimento dei soldati israeliani ai capi di Hamas che si trovano a Khan Younis, nascosti, si presume, in un tunnel, con gli ostaggi a fare da scudi. Tsahal, l’esercito israeliano, ha avvisato del suo arrivo e sta circondando la città, la seconda per grandezza dentro alla Striscia. Ha diffuso anche dei volantini con i volti dei leader dell’organizzazione: Israele è pronto a pagare per vedersi consegnare i criminali che tengono in prigionia gli oltre centotrenta ostaggi. Le voci ripetute e sempre nuove di un possibile accordo tra Israele e Hamas continuano a far balenare speranze e a essere smentite, e nella collezione degli accordi non portati a termine si affollano i “no” che Hamas ha pronunciato finora e che continuano a prolungare la guerra. L’ultima offerta israeliana prevede un cessate il fuoco di due mesi e la possibilità per i leader di Hamas che si trovano nella Striscia di uscire vivi e andarsene senza essere catturati dall’esercito. Era già accaduto nel 1982, quando Israele permise a Yasser Arafat di lasciare Beirut: non venne preso, non venne fermato, andò in Tunisia. Yahya Sinwar vuole di più, Arafat non aveva centotrenta israeliani da scambiare per ottenere un accordo, non aveva un sistema di tunnel che arriva fino al confine con Israele e che se non verrà scovato dai soldati rimarrà a imperitura minaccia per lo stato ebraico. Sinwar non vuole essere Arafat e finora si è preso il lusso di dire molte volte “no”. I primi ostaggi sono tornati a casa a fine novembre, dopo un accordo esteso giorno per giorno: bastava che Hamas consegnasse i prigionieri e Israele continuava a svuotare le sue carceri di palestinesi e a rispettare il cessate il fuoco. E’ stato Hamas a dire “basta”, non soltanto non ha rispettato la consegna di tutte le donne, i minori e gli anziani, ma ha anche sparato il primo colpo, che ha interrotto la pausa dai combattimenti. La guerra è ricominiciata, con il numero spropositato di vittime tra i civili palestinesi e con gli israeliani ancora in trappola. La diplomazia è andata avanti. Gli Stati Uniti, l’Egitto, il Qatar si sono impegnati in una serie di negoziati forsennati, finiti con la parte della leadership di Hamas che si definisce politica e che vive a Doha intenta più che a cercare un accordo ad assicurarsi la sopravvivenza e la normalizzazione dopo la fine del conflitto: sapeva che a Gaza, Sinwar avrebbe risposto sempre e soltanto “no” a qualsiasi proposta. A gennaio è arrivato l’accordo sulle consegne dei medicinali agli ostaggi, anche la Francia si era impegnata per fare in modo che Hamas acconsentisse. I terroristi avevano accettato, senza permettere però che fossero la Croce Rossa o il Qatar a occuparsi delle consegne e imponendo che fosse il ministero della Salute di Gaza a portare le medicine agli ostaggi. Il ministero della Salute è gestito da Hamas e non c’è modo di sapere se il carico di medicinali contro l’asma, il diabete, le malattie renali e cardiache sia arrivato ai prigionieri, e nessuna notizia è mai giunta sulle loro condizioni di salute. Degli ostaggi Israele non sa nulla, le uniche notizie arrivano da coloro che sono tornati e sono racconti atroci.
Gli Stati Uniti sono indaffarati in un viaggio intenso per concludere un nuovo accordo. Il consigliere del presidente americano Joe Biden, Brett McGurk, si muove tra Egitto e Qatar tenendo tra le mani la strada per la fine della guerra che Washington e diversi stati arabi condividono. Il premier israeliano Benjamin Netanyahu dice di essere contrario alla soluzione dei due stati prevista dal piano di Biden, ma non è l’unico. Hamas non ammette l’esistenza di uno stato israeliano, non soltanto è scritto nel suo statuto, ma gli uomini del gruppo continuano a ripeterlo. E’ questo un altro “no”, che continua ad aggravare la guerra: ieri secondo il direttore generale dell’Unrwa, è stato colpito un centro per rifugiati. Le persone scappano, si accalcano verso il mare, verso Rafah, la città al confine con l’Egitto dopo la quale c’è soltanto un muro invalicabile. A Rafah, prima del muro sono iniziate le proteste perché c’è carenza di tutto. Sono proteste contro la guerra, ma tra i manifestanti c’è chi ha gridato: liberate gli ostaggi.