L'editoriale dell'elefantino
La grancassa delle proteste contadine in Europa: difesa dell'ambiente o dei sussidi?
Sono iniziate le interpretazioni per capire cosa chiedono gli agricoltori che stanno protestando nel Vecchio continente. Per ora, l'unica cosa chiara è che c'è tanta, troppa, confusione
Questa storia della rivolta contadina in Europa, sussidi e corporazioni sindacali a parte, sfruttamento populista a parte, sembra carica di lasciti ingombranti del passato e ipotesi non solo sociali o politiche, ma culturali e ideologiche, sul futuro, e ha qualcosa di incomprensibile. Quando una moltitudine si mobilita e suona la grancassa con toni irriducibili e a volte violenti, sociologi e filosofi, scrittori e intellettuali militanti, accorrono e imbastiscono il gioco non sempre stucchevole dell’interpretazione. Si parla di vita delle comunità rurali, di fenomeni spaventosi come le statistiche sull’indebitamento e il suicidio di agricoltori francesi in sequenza, si misura la distanza con la condizione urbana, come era avvenuto con i gilet gialli ovvero la rivolta del ceto medio periferico; si parla anche di ricerca avanzata, di scienza e tecnologia, di sviluppo e sostenibilità ambientale, e semplicemente del sapore della bistecca o del senso generale stilisticamente corretto dei modi di vita vegetariani e vegani così di tendenza nei nostri anni. Per non dire delle politiche economiche in Europa, delle multinazionali globalizzate, e delle questioni di cosiddetta sovranità alimentare (invenzione macroniana prima che lollobrigidiana, dunque né di destra né di sinistra).
Ieri da lettore della Stampa di Torino sono incappato in un articolo di Carlo Petrini sulla carne coltivata e ho visto con sorpresa che il titolo redazionale diceva l’opposto del testo. “Perché la carne coltivata può salvare il pianeta”, era il titolo. “Per il sacrosanto principio di precauzione, in questo momento particolare sono contrario alla carne sintetica”, c’è scritto nel testo, subito prima di remore avversative, cautele e autocontraddizioni molto dettagliatamente argomentate. Già dire carne coltivata (titolisti) e carne sintetica (autore del pezzo) denota una differenza di approccio, dall’eufemismo di un termine (coltivazione) compatibile con la tradizione alla rudezza tecnologica del “sintetico”. Petrini, creatore della filosofia territorialista e ipertradizionalista del circuito di slow food, è un adepto rispettabile della religione contemporanea dell’ascolto e del confronto con l’altro, e in effetti quando manca un’opinione ferma, quella salda opinione che secondo Platone era poi nient’altro che la verità, la titolazione si fa difficile e paradossale. Ma si fanno difficili e paradossali anche i cortocircuiti dell’esperienza sociale, della cultura e della visione di ciò che sarebbe la civilizzazione del mondo al nostro stadio di transizione ecologica.
Non si capisce più se contadini, allevatori, filosofi e militanti in rivolta siano pro o contro le multinazionali, che sono – come rileva Petrini – sia quelle che puntano al business della carne coltivata sia quelle che investono nell’agricoltura industrializzata e avvelenata, si dice, dall’eccesso dei fitofarmaci, dalla produzione in tremendo eccesso di CO2, dall’inumano trattamento, sanitariamente scorretto per giunta, della carne da macello negli allevamenti intensivi, quelli che producono un reddito sostenibile per le aziende. Non si capisce più se la rivolta è per la tradizione territoriale, per una visione ambientale corretta della ruralità, o per la difesa di incentivi all’agricoltura così com’è e per far tornare i conti che si presumono o sono sballati. Per le rivoluzioni, per la conservazione, per le riforme l’ascolto è importante, ma un’opinione salda, a scanso di troppi equivoci, non lo è di meno.