memoria e presente

La Schindler's List del 7 ottobre

Micol Flammini

Il nonno sopravvissuto e il nipote ostaggio, le fughe in treno dai nazisti e il sequestro sulle jeep di Hamas. Storie di 80 anni fa che tornano oggi: "E' lo stesso Olocausto"

Michael Kuperstein aveva tre mesi quando sua madre, con lui al  collo, prese un treno diretto verso neppure lei sapeva dove. I nazisti erano arrivati a Chisinau. Non fu lungo il viaggio in treno, i soldati tedeschi e romeni lo colpirono, ci furono morti, feriti, il carrozzone era bloccato sui binari e Michael e sua madre si ritrovarono a errare per la Moldavia, nel mezzo della foresta. Quando sua madre intravedeva una casa, correva a bussare, non aveva latte e non aveva cibo, ma quando chiedeva aiuto, la risposta era sempre la stessa: venivano cacciati, perché ebrei. Arrivarono in Ucraina, a Cernivci, e alla madre, con Michael sempre al  collo, dissero che rimanere lì non era sicuro, tutti gli ebrei della zona venivano uccisi. Allora lei continuò a camminare per il territorio ucraino così vasto, nessuno ha memoria di quanto durò quella camminata senza fiato, ma arrivò fino in Russia, a Stalingrado. Riuscirono a sopravvivere, vissero negli scantinati. Qualcuno, nella città privata di tutto e che a breve divenne la più dannata della Russia, era disposto ad aiutarli. Quando la madre era disperata usciva in strada a chiedere del cibo, ma in quella che oggi si chiama  Volgograd arrivavano soltanto le bombe naziste. Un giorno i soldati russi li misero su un treno e li mandarono in Uzbekistan.  Fu a Tashkent che dopo tre anni suo padre li raggiunse: era stato catturato dai nazisti poco dopo la nascita di Michael, era sopravvissuto ai lager, la vita, seppur ammaccata, poteva ricominciare. Ma a Tashkent passò da una persecuzione all’altra,  i sovietici lo mandarono in Siberia: rimaneva sempre ebreo. Michael oggi ha ottantadue anni, vive in Israele, ricorda sua madre come un’eroina e dice che la sua famiglia è costellata di eroi, perché anche suo nipote Bar lo è, sono passati decenni dall’Olocausto, ma il ragazzo è intrappolato a Gaza, è stato catturato il 7 ottobre e l’ultima immagine che Michael ha visto di lui è in uno dei video che Hamas ha diffuso per vantarsi della sua efficienza nell’uccidere ebrei. Nel video Bar è a terra, con le braccia legate dietro la schiena: poteva essere lì come a Chisinau ottant’anni fa. A un uomo che ha vissuto nella foresta, negli scantinati, vivo grazie alla fame di resistenza di sua madre, che non era disposta a morire soltanto perché ebrea, quell’immagine ricorda  le persecuzioni subite, l’assenza di suo padre, passato dai lager ai gulag. Bar lavorava come paramedico al Nova festival, quando Hamas iniziò a sparare rimase lì ad aiutare i compagni feriti, un suo amico sopravvissuto ha raccontato che anche lui avrebbe avuto l’occasione di scappare, ma è rimasto e i terroristi lo hanno portato via sulle loro jeep. Michael aspetta, lui e tutta la sua famiglia hanno delle magliette con la faccia di Bar, non sanno nulla, ogni mattina la lista delle domande ricomincia da capo, l’incredulità si rinnova: come è stato possibile? Dallo scantinato di Stalingrado, dalla foresta in Moldavia, dal treno per Tashkent, Michael non è uscito mai del tutto, ha continuato a rimanerci dentro, come tanti sopravvissuti, che non hanno smesso di domandarsi: perché proprio io? Alcuni, come Michael, oggi hanno qualcuno intrappolato nella Striscia che vive il vuoto e la domanda è al contrario: perché  proprio  loro? 


Yossi Shnaider è il cugino di Shiri  Bibas, rapita dal kibbutz Nir Oz assieme a suo marito Yarden e ai suoi due figli: Ariel e Kfir, il più piccolo tra gli ostaggi. Alle domande “perché proprio io?” e “perché proprio loro”, Yossi  non fatica a trovare la risposta: almeno quattro generazioni della sua famiglia sono state perseguitate perché ebree. Sua nonna era stata deportata dai nazisti, riuscì a fuggire lanciandosi da un treno, atterrò nel nulla, scappò. Sua zia Margit e suo zio Yossi sono stati presi da Hamas il 7 ottobre, i loro corpi sono stati trovati dai soldati poco oltre il confine di Gaza: “Giustiziati”. Durante la tregua, Yossi ha atteso tutti i  giorni che i nomi della sua famiglia in ostaggio uscissero in quella che lui chiama la “Schindler’s List dei nostri giorni”, quell’elenco trasmesso da Hamas al governo israeliano con  cui comunicava chi avrebbe liberato. Quell’elenco era atteso da tutta Israele, c’erano i nomi di chi si sarebbe salvato. I parenti degli ostaggi lo aspettavano senza respirare, Yossi non ha mai visto su quella lista  il nome di Shiri, di Ariel, di Kfir o di Yarden, ma è convinto di aver provato quello che provavano gli ebrei mentre attendevano di essere nominati nella Schindler’s List: esserci voleva dire salvezza. Il tempo sembra estendersi nell’attesa, Hamas ha detto che sua cugina e i nipoti sono morti, ma non ci sono prove, Kfir a breve avrà vissuto la maggior parte della sua vita in prigionia e avrà subito danni che ormai sono da considerarsi permanenti. Le uniche notizie sono arrivate da Yarden, è stato rinchiuso in una gabbia senza luce, poi a dicembre è stato messo davanti a una telecamera mentre gli veniva data la notizia della morte della sua famiglia, le sue lacrime sono state  regalate alla propaganda. La nonna di Yossi e di Shir non raccontò molto ai nipoti delle persecuzioni, delle fughe, della fame. Accade spesso in Israele che i discendenti dei sopravvissuti all’Olocausto sappiano poco di quel passato;  chi è riuscito a rimanere vivo non ha parlato nella convinzione che tutto dovesse ricominciare e tutto quel dolore non fosse necessario per costruire un nuovo mondo. Yosef Avi Yair Engel è nato in Israele, i suoi genitori uscirono vivi dai campi di concentramento, suo padre era stato ad Auschwitz. Erano olandesi, ma si trasferirono in Israele, a lui dissero poco del loro passato, fino a quando non furono i suoi  figli a  chiedere di sapere di più. Nell’Olocausto di un giorno del 7 ottobre, è stato rapito suo nipote Ofir, era a Be’eri. Ofir è vivo, è tornato a casa con in tasca la cittadinanza olandese. Con lui, in prigionia, c’era il padre della sua fidanzata, Yossi Sharabi, morto nelle mani di Hamas. 

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)