Ai confini dell'Asse della resistenza
Tre città che spiegano la guerra dell'Iran a Israele e Stati Uniti
Jask, al Bukamal, Quneitra. Storie dalle frontiere del blocco guidato dall'Iran per decifrare la strategia del regime e dei suoi alleati, dove si decidono le sorti della guerra lanciata a Israele e Stati Uniti
Sulle sponde di una piccola cittadina portuale affacciata sul Golfo di Aden passa il confine orientale dell’Asse della resistenza. Jask è la “base madre dell’Iran”, come la chiamano i pasdaran, la chiave di volta della strategia del blocco anti americano e anti israeliano a guida iraniana. Guarda o occidente, perché da qui si alimenta il traffico di armi diretto ai terroristi yemeniti di Ansar Allah impegnati nella loro guerra nel Mar Rosso, ma in realtà punta all’oriente, all’India e alla Cina. Un tempo era un centro dedito al commercio di frutta e verdura, un lembo di terra abitato da appena 16 mila abitanti, prevalentemente pescatori e commercianti. Cinquecento anni fa, gli inglesi individuarono qui la via d’accesso ideale per i commerci della Compagnia delle Indie orientali in Persia, perché evitava di navigare addentrandosi nello Stretto di Hormuz. Per una ragione analoga, nel 2009 i Guardiani della rivoluzione islamica decisero di costruire qui una nuova base militare. Il giorno dell’inaugurazione, il comandante della Marina, Habibollah Sayyari, chiarì il fascino strategico di Jask: “Qui abbiamo stabilito una nuova linea di difesa, a est dello Stretto. E se necessario possiamo impedire l’ingresso a qualsiasi nave nemica nel Golfo Persico”, la più grande via al mondo per il transito di petrolio. “La maestria della Repubblica islamica raggiunge l’Oceano indiano – aveva aggiunto il generale Abdolrahim Musavi – Il tempo dell’accerchiamento e dell’isolamento è finito. Prima lo capiranno, meglio sarà per loro. Altrimenti ne pagheranno le conseguenze”.
L’Iran ha investito oltre 2 miliardi di dollari a Jask per trasformarla in un hub energetico, facendo confluire qui due oleodotti e un gasdotto. Mentre il regime intende alimentare le esportazioni energetiche dirette in Cina, Pechino vuole spendere qui buona parte del denaro promesso con l’accordo di cooperazione siglato nel 2021 con l’Iran (circa 400 miliardi di dollari in totale) ed estendere la sua presenza nell’area raddoppiando la base navale già operativa in Djibouti. Le riprese satellitari più recenti mostrano diversi sottomarini Classe Ghadir ormeggiati a Jask insieme ad altre unità navali veloci. Lo scorso 11 gennaio è stata condotta qui la St. Nicholas, la petroliera di proprietà americana assaltata e finita sotto il controllo dalle forze iraniane. In attesa dell’esercitazione navale congiunta con russi e cinesi in programma quest’anno, la Marina iraniana ha già annunciato che dal 31 gennaio al 10 febbraio la base di Jask ospiterà la flotta navale del paese per le celebrazioni del 46esimo anniversario della rivoluzione islamica (Daheye Fajr in farsi).
Ma nella guerra su larga scala condotta contro Israele e Stati Uniti, l’arma più efficiente sono invece delle tradizionali imbarcazioni di legno usate per secoli dai pescatori del Golfo. I dhow, come sono chiamate, sono ormeggiati a decine al molo di Jask, spesso riadattati per recapitare le armi e le munizioni agli alleati houthi. “La tratta dall’Iran allo Yemen con queste imbarcazioni va avanti almeno dal 2013”, spiega al Foglio Mohammed Albasha, senior analyst per il medio oriente del Navanti Group. Negli anni, gli americani che pattugliano l’area hanno intercettato una ventina di carichi. “Ma visti i numeri, si ritiene che la quantità di armi giunta a destinazione sia molto più elevata”, dice l’esperto. L’ultimo caso documentato risale allo scorso 11 gennaio, quando una squadra di Navy Seal imbarcata sulla USS Lewis B. Puller ha intercettato un dhow al largo delle coste della Somalia con a bordo una notevole quantità di missili balistici e anticarro di fabbricazione iraniana e diretti in Yemen. Nel corso dell’abbordaggio, due Navy Seal sono stati inghiottiti dal mare.
Ansar Allah è diversa dagli altri alleati dell’Iran, gode di più autonomia, ha risorse economiche che le altre milizie non possono vantare e ha una sua agenda per legittimarsi dentro e fuori dallo Yemen. Ma il gruppo ha trovato nell’Iran lo sponsor che cercava – senza il quale non avrebbe potuto minacciare la sicurezza nella regione – e in Israele il giusto nemico in grado di coalizzare le tribù yemenite. “Gli americani sono il diavolo”, inneggiano in questi giorni milioni di sostenitori di Ansar Allah riuniti nelle grandi manifestazioni di Sana’a.
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A oltre 2 mila chilometri di distanza, nel villaggio di al Bukamal al confine tra Siria e Iraq, i pasdaran non si sono limitati a fornire armi. Secondo alcune ricostruzioni non ufficiali, il drone iraniano che sabato scorso ha ucciso tre soldati americani e ne ha feriti altri 34 alla base Tower 22, al confine tra Giordania e Siria, è partito da una postazione militare non lontana da al Bukamal. Costruita nel 2019 dai pasdaran come una sorta di caravanserraglio-bunker per le milizie che transitano fra Iraq e Siria, è nota come base Ali Imam ed è difesa dagli uomini delle forze speciali iraniane al Quds insieme a quelli di Kataib Hezbollah. Fu voluta da Teheran come avamposto di deterrenza contro gli americani dislocati a poche decine di chilometri, nell’Area 55, dove si trova la base di al Tanf. Stati Uniti e Iran si contendono questa zona desertica perché chi la controlla può aprire o chiudere i rifornimenti di armi da est a ovest. “Vista da fuori è quasi impossibile capire cosa succede in quest’area, ma è chiaro che è diventata parte del gioco del gatto col topo messo in scena dall’Iran con Stati Uniti e Israele”, spiega al Foglio Aron Lund, ricercatore al think tank Century International.
Per questo gli iraniani hanno lanciato qui un’offensiva militare, ma anche una religiosa e sociale, che va oltre le divisioni fra clan o confessioni islamiche. Un video girato nel 2017 mostra il comandante delle forze speciali al Quds, Qassem Suleimani mentre gira per le vie di al Bukamal circondato da decine di combattenti che si affannano per abbracciarlo e stringergli la mano. Festeggiano la cacciata dello Stato islamico e appartengono alla tribù Mashada originaria di Mashad, una città dell’Iran distante oltre 2 mila chilometri, ma molto influente qui, nel governatorato orientale di Deir Ezzour. Per loro è stato naturale unirsi alla chiamata alle armi di Teheran contro il Califfato, così come è successo alla brigata al Baqir, che prende il nome dal quinto imam dello sciismo dei duodecimani. Ma i proseliti degli iraniani non si sono fermati all’arruolamento degli sciiti. Anche i sunniti della tribù al Baggara, molti dei quali si sono poi convertiti allo sciismo, hanno prestato fedeltà a Teheran. Il processo di sciitizzazione di larghe parti della Siria, come nel caso al Bukamal, è al cuore della strategia iraniana. Lo scopo è tenere sotto la sua influenza una via di passaggio delicata, perché molto distante da Teheran, ma che mette in comunicazione via terra direttamente l’Iran alla Siria e quindi al Libano. Il valico di al Bukamal è l’unico aperto fra Siria e Iraq. Fino al 2016, l’arteria stradale che passa da qui e che collega l’Iran a Baghdad fino a Raqqa, Aleppo e quindi alle sponde del Mediterraneo era sotto il controllo del Califfato che aveva cancellato le frontiere tracciate un secolo fa per creare il Wilayat al Furat. Al Bukamal in Siria e Qaim sul versante iracheno erano state unite in un’unica struttura amministrativa sotto la legge del califfo. Poi, con l’arrivo degli iraniani, è iniziata la proliferazione di moschee sciite, di organizzazioni culturali e per la ricostruzione degli edifici pubblici, di campi di reclutamento e addestramento militare rivolti anche ai bambini. Si sono create così nuove milizie che rispondono direttamente a Teheran, come il battaglione femminile al Zahra, composto da giovani ragazze in età adolescenziale. Gli americani e gli israeliani bombardano periodicamente il valico per impedire il passaggio di armi e uomini dall’Iraq alla Siria, ma bloccarne il flusso è quasi impossibile. Certo, i raid americani hanno reso più difficile i piani degli iraniani, però a Washington aumentano i dubbi sul futuro della missione nella regione. La settimana scorsa il Pentagono ha annunciato che gli Stati Uniti ridurranno la loro presenza in Iraq, mentre altri funzionari americani hanno rivelato a Foreign Policy e Politico che sono allo studio piani per il ritiro dalla Siria. A Teheran non attendono altro: un nuovo Afghanistan per gli americani.
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La città di Quneitra da secoli porta nel nome il significato di “ponte”, perché incastonata fra Siria, Giordania, Libano e Palestina. Qui, sulle Alture del Golan, confluivano arabi, caldei, assiri, aramaici, persiani e greci. Dopo la Guerra dei sei giorni del 1967 e la conquista israeliana, i siriani chiamano Quneitra “la città fantasma”, spopolata e circondata dal filo spinato. Nel sud della Siria più che altrove la guerra combattuta a colpi di ritorsioni e contro ritorsioni tra filoiraniani e israeliani rischia di deflagrare in un conflitto regionale più ampio. Così, da qualche settimana, nella città fantasma sono tornati i russi per sorvegliare da vicino e tenere a freno i loro stessi alleati iraniani. “Siamo lì per monitorare la situazione”, ha spiegato a inizio dell’anno il contrammiraglio Vadim Kulit, vicecomandante delle forze di Mosca in Siria. Ecco allora due nuovi avamposti di sorveglianza e i pattugliamenti con elicotteri lungo la linea Bravo, che demarca il confine della zona demilitarizzata del Golan tracciata nel 1973. Nel 2018 il regime di Bashar el Assad aveva ripreso il controllo dei governatorati meridionali di Quneitra e Daraa proprio grazie all’aiuto dei russi. Ai gruppi armati dell’opposizione furono offerti dei salvacondotti se si fossero uniti alle forze regolari del regime, una tattica usata già in molte altre regioni del paese per vincere le resistenze delle forze di opposizione. Chi decise di non arruolarsi fu costretto a scappare nel nord-ovest del paese. Da oltre un anno, una volta “ripulita” la regione, i russi si erano ritirati nell’ottica di concentrare altrove le proprie forze, non ultimo sul fronte ucraino. Ora sono tornati perché gli iraniani hanno la tendenza a rioccupare gli spazi vuoti lasciati in Siria, ma soprattutto perché Mosca teme che una guerra con Israele possa mettere a repentaglio lo status quo. Uomini delle forze al Quds e di Hezbollah si sono ammassati pericolosamente al confine con il Golan ed Esmail Qa’ani in persona, comandante delle forze d’élite iraniane, si è recato più volte in visita nella zona. Dal 7 ottobre, le milizie filoiraniane che si sono spostate a ridosso di Quneitra hanno cominciato a lanciare razzi contro Israele, che a sua volta ha replicato agli attacchi in modo chirurgico ed efficace. E’ successo lo scorso dicembre, quando un drone israeliano ha eliminato quattro combattenti di Hezbollah che viaggiavano in auto a Medinat al Baath, una decina di chilometri da Quneitra. Fra loro c’era anche Hasan Ali Daqduq, membro delle forze Radwan, un’unità speciale di Hezbollah. Suo padre, Ali Musa Daqduq, è una figura di rilievo, perché è fondatore e comandante del cosiddetto Progetto Golan, un’altra unità speciale segreta di Hezbollah creata nel 2019 e addestrata per operare a ridosso del confine fra Siria e Israele per raccogliere informazioni di intelligence. Ma se Israele guarda con preoccupazione all’escalation nel Golan, perché teme l’apertura di un nuovo fronte dopo quello a Gaza e nel sud del Libano, anche i russi sono infastiditi dall’esuberanza degli alleati filoiraniani, perché le ritorsioni israeliane si spingono ormai fino a Damasco. Lo scorso 20 gennaio, missili israeliani hanno preso di mira Mezzeh, il quartiere diplomatico della capitale siriana, uccidendo quattro consiglieri militari iraniani di alto rango appartenenti ai Guardiani della rivoluzione. A dicembre, un altro raid israeliano aveva ucciso Seyed Razi Mousavi, altro uomo di Teheran che affiancava i militari del regime siriano. Ieri, un nuovo attacco israeliano ha preso di mira un deposito di armi nello stesso luogo, Sayyidah Zaynab, un sobborgo sciita di Damasco “colonizzato” dai militari iraniani e da quelli di Hezbollah dall’inizio della guerra. Ma fare da moderatori in questo universo di milizie non è semplice per Mosca e sui canali Telegram di diversi gruppi armati filoiraniani si rinnovano gli appelli a lanciare da Quneitra e Daraa un attacco via terra contro Israele: “E’ ora di riattivare il Progetto Golan”, scrivono.