Dalla nostra inviata
Ritorno al kibbutz. Un segnale di vita nei luoghi devastati, mentre Hamas ricompare a Gaza City, a due passi
“Nessuno di noi può iniziare alcun tipo di processo di guarigione finché non saranno tornati tutti a casa", dice Amit Soussana, l'avvocata israeliana rimasta per 55 giorni ostaggio dei terroristi dopo l'assalto del 7 ottobre
Kfar Aza. Il profondo turbamento emerge nello sguardo, negli abbracci, nelle lacrime trattenute a stento, nelle sigarette accese a ripetizione davanti a quello che resta di casa sua e del suo quartiere a Kfar Aza. “Ci hanno messo più di un’ora per portarmi al confine”, ricorda Amit Soussana, riemersa il 30 novembre dall’incubo della prigionia, dopo 55 giorni di cattività a Gaza. Distante appena un chilometro e mezzo dalla Striscia, Kfar Aza è stato il kibbutz più massacrato nell’assalto di Hamas del 7 ottobre del 2023. Quel sabato mattina, l’avvocata israeliana di 40 anni ha lottato con ogni fibra per resistere ai sette terroristi, “uomini pesantemente armati ma in abiti civili”, che l’hanno presa e trascinata di peso attraverso i campi.
Soussana è tornata al kibbutz tre volte in due mesi, ma prima di lunedì non aveva mai accettato di raccontarsi davanti alla stampa. Nel cortile del quartiere “dei giovani adulti” del kibbutz, fino a quattro mesi fa c’erano risate, musica, chiacchiere tra amici e centrifughe di lavatrici che, usanza locale, appartengono allo spazio esterno. Negli spartani bilocali, indipendenti e tutti uguali, affacciati sul giardino comune, vivevano trentasette ragazzi e ragazze accomunati dalla spensieratezza, dal piacere di ritrovarsi attorno al barbecue, a bere birra e fumare.
Il trend era iniziato una manciata di anni fa. Le richieste al Takam, il movimento nazionale dei kibbutzim, erano aumentate tanto da dover aprire una lista d’attesa. Le giovani generazioni di israeliani stavano riscoprendo la qualità della vita alla periferia del paese. Che fossero ragazzi di città attratti da un ritmo più lento, o i figli del kibbutz, persi e poi ritrovati, si mettevano in fila per essere ammessi nelle comunità agricole concentrate attorno alla Striscia e al confine con il Libano. Dodici sui trentasette che vivevano nel quartiere della nuova gioventù di Kfar Aza sono stati uccisi nel pogrom lanciato da Hamas. Sette, tra cui Soussana, sono stati presi come ostaggi e portati nella Striscia. Lei sola, fino a oggi, è tornata viva. Due amici e vicini di casa, Yotam Haim e Alon Shamriz, sono stati uccisi per errore dall’esercito a Gaza. Nel cortile le lavatrici giacciono rottami. Il grande vuoto e l’inquietante silenzio sono interrotti dalle sventagliate delle mitragliatrici, dai colpi di artiglieria e dalle bombe sganciate dalle forze dell’aeronautica militare israeliana. Proprio lunedì le forze di Tsahal sono tornate al campo profughi di Shati e in altri luoghi nel nord di Gaza per arginare gli sforzi di Hamas volti a ripristinare il suo dominio e la sua presenza armata. Il Ramatkal Herzi Halevi, che teme di veder volatilizzati i risultati militari ottenuti in tre mesi di aspro conflitto, continua a sollecitare il governo sulla necessità di tradurre i successi in un processo diplomatico. All’incontro con i media, oltre a Soussana, hanno partecipato famigliari di altri giovani uomini e donne rapiti. Liran Berman è il fratello maggiore dei gemelli Gali e Ziv di 26 anni. “I miei figli venivano a giocare con gli zii su questo prato. È così irreale guardarsi intorno e vedere i segni di un nuovo Olocausto”.
Berman ha preso parte a tre delegazioni israeliane all’estero per sensibilizzare i leader globali sull’urgenza della liberazione dei 136 connazionali. A tutti loro ha detto: “Quando torneranno gli ostaggi la guerra finirà. Quindi, per favore, fate il possibile per farci riavere i nostri cari”. Mandy Damari ha una figlia di 27 anni a Gaza, Emily, che descrive con l’amore di una madre: “Carismatica, divertente, premurosa e bellissima. Ama la vita, la musica, i viaggi, il calcio, il buon cibo, i barbecue, il karaoke e i cappelli”. Ora Emily si trova in un tunnel nella Striscia, 40 metri sottoterra, dove si sta “come sepolti vivi”. “Chiudete gli occhi – dice ai presenti – e immaginate che vostra figlia venga colpita, picchiata, abusata, psicologicamente e sessualmente. Tenuta in una cella senza privacy, senza doccia, un gabinetto da scaricare una volta ogni tre giorni, con pochissima acqua da bere”.
Il professor Hagai Levine, direttore del team medico del Forum dei parenti degli ostaggi, li accompagna, li osserva, li studia. Si è assunto la responsabilità di occuparsi della salute della comunità nel suo complesso. “Avranno bisogno di anni di riabilitazione. E forse gli incubi non li abbandoneranno mai. Lo sappiamo dalla letteratura della Shoah. Come sappiamo che ci sono stati sopravvissuti che si sono suicidati molti anni dopo. Non dobbiamo abbassare la guardia, provvedere al sostegno psicologico e alle cure mediche. Ma per prima cosa – si raccomanda il dottore – dobbiamo liberare gli altri ostaggi”. “Nessuno di noi può iniziare alcun tipo di processo di guarigione – conferma Amit Soussana – finché non saranno tornati tutti a casa”. In una scatola di legno che un tempo conteneva bombe e granate, appesa all’ingresso di una delle casette devastate, continua a crescere una pianta. “Questi ragazzi – nota il dottor Levin – hanno preso un oggetto legato alla guerra e l’hanno usato per contenere la vita. Non possiamo resuscitare chi è stato assassinato, ma possiamo salvare gli ostaggi. E guardare con speranza alla loro capacità di recuperare”.
L'editoriale dell'elefantino