accordi a caro prezzo

Cosa vuole Hamas per liberare gli ostaggi

Micol Flammini

I terroristi chiedono di far uscire dalle carceri israeliane gli uomini che servono a ripetere il 7 ottobre

Ogni sera le voci di ottimismo riguardo alla rapidità con cui si potrebbe concludere un accordo tra Israele e Hamas per la liberazione degli ostaggi si soffocano un po’. Ogni sera si conclude con una risposta non data e Hamas, così amano dire i suoi portavoce, “studia la proposta”. Mentre studia, la guerra continua, i soldati israeliani si muovono a sud, Hamas fa capolino a nord per dimostrare di non essere sconfitta, ma sono apparizioni dimostrative: la sua infrastruttura non è distrutta, i suoi uomini non sono eliminati, ma la sua capacità di resistenza è compromessa. La sua forza non sta nei razzi che può lanciare contro Tel Aviv, non sta nella rete di tunnel, non sta neppure nelle imboscate. La sua forza continua a essere tutta nei centotrentasei ostaggi israeliani che tiene prigionieri. Il peso negoziale di Hamas sta ancora nelle vite appese e comunque distrutte, nella pressione dei loro famigliari che protestano ogni sera contro il governo di Israele.


I terroristi alzano il prezzo dell’accordo e anche se il premier Benjamin Netanyahu  ha detto che non accetterà un compromesso a qualsiasi costo, è di questo che si sta parlando. La sopravvivenza di Hamas sta in questi negoziati e i terroristi   insistono  sul numero di palestinesi che Israele dovrebbe liberare dalle sue carceri per veder tornare a casa gli ostaggi. I nomi che vengono fuori sono quelli di leader legati all’organizzazione o al compimento di atti terroristici, sono tutti uomini che hanno giurato di odiare Israele e di combattere per la sua fine. Hamas vuole la liberazione di terroristi di alto profilo e Keshet 12, Canale 12, ha riferito che l’elenco non include uomini legati agli attentati compiuti tra il 2000 e il 2005. Abdullah Barghouti  è stato ritenuto responsabile della morte di sessantasei israeliani, mentre Ahmad Saadat, attualmente in isolamento, ha organizzato nel 2001 l’assassinio di Rehavam Ze’evi, ministro del turismo israeliano. Fra i terroristi citati da Keshet 12  c’è anche Ibrahim Hamed, che viene considerato il prigioniero più pericoloso nelle carceri israeliane, è stato il comandate di Hamas in Cisgiordania ed è stato condannato per l’omicidio di 46 civili. Nella lista ci sono anche Abbas al Sayed e Muhammad Arman, il primo pianificò l’attentato al Park Hotel di Netanya nel 2002 e il secondo era il comandante della squadra Silwan che effettuò gli attacchi al Café Moment e all’Università ebraica di Gerusalemme. 


Chiedere la liberazione di questi terroristi per nulla pentiti equivale alla promessa di ripetere il 7 ottobre, è una storia che torna dallo scambio per la liberazione di Gilad Shalit. Yahya Sinwar, che è stato nelle carceri israeliane e ben conosce la mentalità dello stato ebraico, sa che sta portando avanti un ricatto che riscriverà la storia del futuro di Israele. Il ricatto è semplice,  in sé porta la minaccia di ripetere il 7 ottobre e suona così: o liberate i terroristi pronti a riorganizzarsi per un nuovo attacco, o noi terremo gli ostaggi e la ferita per la vostra democrazia sarà profonda. 

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)