L'analisi
Nei calcoli di Riad c'è un buco, ma non è la normalizzazione con Israele
Per l'Arabia Saudita la crisi nel Mar Rosso non comporterà rischi imminenti. A pesare sulla regolarizzazione dei rapporti con Israele saranno piuttosto i risultati delle presidenziali americane e il riavvicinamento all'Iran mediato da Pechino
Vista da Riad, la crisi nel Mar Rosso è grave. Ma non abbastanza, almeno nel breve termine, da creare seri problemi per l’economia e la sicurezza del regno. Se da un lato l’Arabia Saudita tiene moltissimo alla stabilità del tratto di mare fra lo stretto di Bab el Mandeb e Suez, teatro di continui attacchi degli houthi yemeniti, dall’altro Riad al momento non vede direttamente compromessi i propri interessi. I negoziati in corso con gli houti sostenuti dall’Iran sembrano in grado di schermare la monarchia araba da possibili attacchi, almeno per il momento. Al contempo, la casa reale continua a vedere la normalizzazione dei rapporti con Israele come una strada praticabile, sebbene rallentata dalla crisi iniziata il 7 ottobre scorso. Ma entrambi gli elementi, distensione con gli houthi e regolarizzazione dei rapporti con lo stato ebraico, si basano sull’assunto che la guerra non si allarghi ulteriormente.
Gli houthi, appoggiati dall’Iran, sono una vecchia e dolente conoscenza di Riad, che nel 2015 è intervenuta nel conflitto yemenita a sostegno del governo riconosciuto dalla comunità internazionale. Prima dell’attacco di Hamas a Israele, l’Arabia saudita aveva lavorato molto per garantire la sicurezza del Mar Rosso, anche tramite intese con i paesi rivieraschi africani. All’inizio del 2023, inoltre, l’Arabia saudita aveva avviato colloqui bilaterali con gli houthi per raggiungere un cessate il fuoco nello Yemen, ma gli houti hanno colto l’occasione della crisi a Gaza e per minacciare la sicurezza del Mar Rosso e aumentare così il proprio peso negoziale.
“Nel breve periodo, non vedo rischi economici e di sicurezza per l’Arabia saudita”, dice al Foglio Eleonora Ardemagni, ricercatrice associata senior dell’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi). “Finché gli houthi sentiranno di poter trarre vantaggio politico e negoziale dai loro attacchi nel Mar Rosso, non hanno interesse a colpire il territorio saudita come facevano fino al 2022 ma, al contrario, ce l’hanno a tenere in vita il negoziato con i sauditi per il cessate il fuoco in Yemen”. Non sembra casuale, in questo contesto, che Riad non abbia preso parte ai raid di gennaio contro le posizioni degli houthi. Al punto che, non più tardi di martedì, un esponente del gruppo yemenita ha espresso “particolare gratitudine” al regno saudita per la sua riluttanza in tal senso. “Il discorso, però, cambierebbe se l'attuale conflitto a bassa intensità nel Mar Rosso dovesse mutare natura", dice Ardemagni.
Questa relativa tranquillità, tuttavia, non significa che Riad non si stia muovendo sul fronte diplomatico, specialmente con Stati Uniti e Israele. Il segretario di Stato americano Antony Blinken ha avviato il suo ennesimo tour nella regione, il quinto dall’inizio della guerra, incontrando il principe Mohammed bin Salman a Riad nella giornata di lunedì. Nei tentativi diplomatici statunitensi, Washington ha messo sul piatto della bilancia la normalizzazione israelo-saudita, che dovrebbe rappresentare l’ultimo e più importante capitolo degli Accordi di Abramo. Riad ha nuovamente assicurato il proprio interesse a normalizzare le relazioni con Israele, ma che ciò dipenderà dal fatto che Israele accetti “passi irreversibili” verso la futura creazione di uno stato palestinese. Al netto della contrarietà del premier israeliano Benjamin Netanyahu a questa ipotesi, la traiettoria non sembra essere mutata. “Penso che la normalizzazione Arabia-Israele sia una questione di ‘quando’, non di ‘se’. Essa rientra negli obiettivi strategici sauditi”, dichiara Ardemagni.
In casa Saud, come del resto in tutto il mondo, sanno che il medio oriente del futuro dipenderà anche dall’esito delle elezioni americane, che si terranno a novembre. Se la normalizzazione con Israele non è in discussione, indipendentemente dalla vittoria di Joe Biden o di Donald Trump, lo stesso non si può dire dei rapporti con l’Iran. Nel 2023, infatti, Riad ha iniziato un riavvicinamento con Teheran tramite la mediazione della Cina. “Non bisogna dare per scontato che i sauditi aspettino il ritorno di Trump”, spiega la studiosa. “Nel 2019 non li difese dopo gli attacchi iraniani a Saudi Aramco”, la compagnia nazionale saudita di idrocarburi, “e ora al regno arabo potrebbe nuocere un Trump troppo falco con l’Iran. Biden o Trump, il punto è che per i sauditi l’Iran dovrebbe fare parte dell'equazione di sicurezza regionale, anche dopo Gaza, per gli americani invece no”, conclude Ardemagni.