Come funziona la rete di fake news cinesi
Citizen Lab ha scoperto "Paperwall", un’operazione di influenza cinese che passa dall’Italia fino al resto del mondo. L'indagine parte da un'inchiesta del Foglio
Disinformazione a pagamento. Una rete sempre più ampia di siti internet che rilancia notizie manipolate e fake news in diverse lingue, nell’anno in cui circa quattro miliardi di persone andranno al voto – anche per elezioni cruciali per noi come quelle nell’Unione europea o in America. Uno dei più famosi e autorevoli laboratori di ricerca sull’informazione online ha scoperto “Paperwall”, un gruppo di almeno 123 siti internet, gestiti all’interno dei confini della Repubblica popolare cinese, che si spacciano per testate giornalistiche locali in trenta paesi, dall’Europa all’Asia fino all’America latina. Servono a diffondere notizie favorevoli a Pechino e attacchi contro i suoi nemici, a volte camuffati anche da apparentemente innocui comunicati stampa commerciali. Citizen Lab, il laboratorio interdisciplinare alla Munk School of Global Affairs dell’Università di Toronto, in Canada, pubblica oggi i risultati di uno studio che il Foglio ha potuto visionare in anticipo, e che individua un pezzo della gigantesca operazione di influenza online che sta costruendo Pechino. E per farlo parte proprio da una inchiesta pubblicata su queste colonne il 25 ottobre scorso, dal titolo “La fabbrica dei contenuti pro Cina”, che svelava l’esistenza di almeno sei siti internet, ufficialmente dedicati “alla diffusione di notizie in italiano”, con domini e nomi diversi ma tutti riconducibili al medesimo indirizzo IP in Cina, nella sede della Tencent Computer System Co. Ltd.
Neanche un mese dopo la pubblicazione di quella notizia, si legge nello studio di Citizen Lab firmato dal ricercatore Alberto Fittarelli, anche il National Cyber Security Center, l’agenzia governativa che fa parte della National Intelligence Service sudcoreana, ha rivelato l’esistenza di 18 siti web in lingua coreana che si spacciavano per testate giornalistiche locali. Tutti erano riconducibili a una società cinese di pubbliche relazioni chiamata Haimai. Sulla base di queste due indagini indipendenti, che avevano molte cose in comune tra cui la struttura e la tipologia di “notizie” pubblicate, Citizen Lab ha deciso di approfondire. E per prima cosa ha scoperto che la rete italiana svelata dal Foglio non si limita a sei siti web, ma include un gruppo di 74 domini che ospitano pagine simili, ma in lingue diverse. Tutta la rete di Paperwall ha gli stessi autori, si rivolge allo stesso cloud cinese, e le homepage, a eccezione della lingua, si presentano quasi identiche. E i contenuti? C’è un mix, scrive Citizen Lab, di articoli copiati dai media locali del paese preso di mira e semplicemente ripubblicati, e poi comunicati stampa, articoli dei media statali cinesi “oppure contenuti anonimi di disinformazione”, postati su più siti web contemporaneamente. Secondo i ricercatori, in questo genere di campagne d’influenza online – Paperwall sarebbe iniziata nel 2020, con una espansione progressiva nel corso degli anni successivi – c’è sempre un sito “madre”: la rete di Paperwall attinge regolarmente per i suoi contenuti “da un’unica fonte pubblicamente disponibile ma altrettanto occulta”. Una tattica tipica è quella di creare “domini imitatori, che imitano fonti di notizie reali senza rivelare dove il contenuto è stato pubblicato per la prima volta”. Citizen Lab ha individuato questo sito in timesnewswire.com, noto perché già indicato da Mandiant, società di cybersicurezza di Google, come una piattaforma di influenza online. Non solo il sito funge da propagatore, ma gran parte delle fake news che mette in giro spesso le cancella subito dopo: i contenuti cosiddetti “effimeri”, cioè che scompaiono nel giro di poche ore, servono a “eludere l’individuazione”, oppure vengono categorizzati non come articoli ma come “comunicati stampa”.
Le operazioni di influenza online cinesi stanno diventando più aggressive, e Pechino si sta avvalendo sempre di più anche di società private per farle: Citizen Lab attribuisce l’intera campagna Paperwall alla società di pubbliche relazioni con sede in Cina, la Shenzhen Haimaiyunxiang Media o “Haimai”, menzionata nel report dell’intelligence sudcoreana.
In questo caos di contenuti, una parte è dedicata alle fake news e a quelli che gli analisti chiamano “attacchi ad hominem”: per esempio, a partire dal dicembre 2023 diversi siti di Paperwall pubblicano articoli contro Li-Meng Yan, la virologa cinese rifugiata negli Stati Uniti che ha più volte sostenuto l’ipotesi del virus Sars-Cov-2 fuoriuscito dal laboratorio di virologia di Wuhan: vengono diffuse notizie “prive di fondamento, mirando alla sua reputazione personale e professionale e completamente anonime”, cercando di creare anche finte campagne pubbliche di mobilitazione contro di lei. Nella stessa rete circolano diversi attacchi anche contro Guo Wengui, il milionario cinese rifugiato in America che ha collaborato con Steve Bannon.
“Un secondo tipo di contenuto a tema politico presente in Paperwall”, si legge nello studio, “è rappresentato dalle teorie complottiste, di solito rivolte all’immagine degli Stati Uniti o dei loro alleati”, per esempio articoli che accusano l’America di condurre esperimenti biologici nei paesi del sud-est asiatico, pubblicati senza firma su timesnewswire.com e poi in un attimo ricopiati in diverse lingue su altre piattaforme.
Secondo Citizen Lab, Paperwall è parte “di una vasta operazione di influenza al servizio di interessi sia finanziari che politici e in linea con l’agenda politica di Pechino”. Certo, il traffico verso i siti della rete è trascurabile, e i ricercatori valutano l’impatto di Paperwall per ora non molto efficace. Ma c’è un ma. “Questa valutazione, tuttavia, così come la grande quantità di contenuti commerciali apparentemente benigni che ricoprono quelli aggressivamente politici all’interno della rete Paperwall, non dovrebbe indurre a credere che sia una campagna innocua”, si legge nel rapporto. “Disseminare articoli di disinformazione e di attacchi mirati dentro contenitori molto più grandi di contenuti irrilevanti o addirittura impopolari è un modus operandi noto nel contesto delle operazioni di influenza, che può alla fine pagare enormi dividendi una volta che uno di questi articoli viene alla fine ripreso e legittimato dai principali organi di stampa o da figure politiche”. L’industria della disinformazione a pagamento sta avendo un boom, avverte Citizen Lab, e la Cina ne sta beneficiando più di tutti.
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