In Irlanda del Nord
Con Michelle O'Neill ora Belfast guarda a Dublino e all'Unione europea
La donna è diventata la prima premier di Sinn Féin, il partito per l’annessione all'Irlanda, nella storia del paese. "È una svolta di grande valore simbolico", spiega al Foglio Arcangelo Dimico, professore di Economia alla Queen’s University di Belfast
È una pagina inedita per l’Irlanda del nord. Sabato scorso, dopo quasi due anni di stallo istituzionale, Michelle O’Neill è diventata la prima premier di Sinn Féin – il partito per l’annessione a Dublino – nella storia del paese. “È una svolta di grande valore simbolico”, spiega al Foglio Arcangelo Dimico, professore di Economia alla Queen’s University di Belfast. “Ma nei fatti cambierà poco: il governo locale esprime un consociativismo ampio, che continua a riservare ai due principali schieramenti – nazionalisti e unionisti – le cariche di primo ministro e vice. Che di fatto sono capi congiunti, con pari poteri. E tali resteranno”.
Oggi si è dunque formalizzato lo scambio di ruoli al vertice, per la prima volta dagli accordi del Venerdì Santo. Possibile allora che il Partito unionista democratico (Dup) si fosse intestardito in un veto politico sostanziale, capace di imbrigliare la formazione del nuovo esecutivo paralizzando al contempo il settore pubblico, per una mera questione di prestigio? “Questo è stato a lungo il timore di Sinn Féin”, chiaro vincitore di entrambe le elezioni del 2022. Ma secondo l’accademico, “il nodo riguardava soprattutto le ripercussioni della Brexit sui regimi doganali: il controllo di frontiera all’interno del mare d’Irlanda ha iniziato a rappresentare una divisione dalla madrepatria intollerabile per i filobritannici”. Spostare il confine fisico tra le due Irlande tuttavia avrebbe rischiato di riaprire vecchie ferite. “Così sono seguiti fitti negoziati tra il Dup e Londra: l’accordo definitivo prevede che almeno l’80 per cento delle merci da e per il resto del Regno Unito non sarà più soggetto a ispezioni estensive”. La cosiddetta Green Lane. “Inoltre, se Downing Street decide di implementare nuove regole in materia dovrà prima ottenere il via libera dall’Irlanda del nord. Una risoluzione molto criticata dai brexiter: di fatto il sistema doganale di Belfast torna ancorato all’Unione europea”.
La pressione degli altri partiti sul Dup – a partire da Alliance, la terza via liberal-riformista – è stata crescente e trasversale. “A sbloccare la situazione sono stati però i finanziamenti da Londra”, dice Dimico. “Oltre 3 miliardi di sterline, destinati alla sanità e ai funzionari pubblici nordirlandesi alle corde: ora finalmente ci sono i presupposti per governare”. La stasi di stato ha fiaccato l’economia locale. Eppure non sono emerse tensioni sociali tangibili. “Vivo a Belfast da 13 anni: è una realtà tranquilla, proiettata verso un futuro ben delineato”. A prescindere dalle dinamiche di palazzo. “E’ in corso un netto processo di avvicinamento a Bruxelles e a Dublino: in che modo il nuovo esecutivo possa favorirlo è difficile da prevedere. Ma nel medio periodo il referendum per un’Irlanda unita non sarà più una chimera. I partiti unionisti sono in calo costante, la popolazione cattolica cresce più di quella protestante, le nuove generazioni sono nate in Europa e non accettano di starne fuori: il dibattito si percepisce nella vita di tutti i giorni”. Non solo nell’Ulster e dintorni. “La Brexit si è dimostrata un flop sotto ogni punto di vista: ha fatto impennare i costi commerciali non tariffari, reso l’inflazione molto più persistente e innescato carenze nel settore agricolo. Ai lavoratori polacchi e rumeni ormai conviene rimpatriare, così aumenta pure il costo della manodopera. Tutto questo fa sorgere l’interrogativo anche in Inghilterra”. Difficile biasimare Belfast, allora, in un giorno nemmeno così lontano.