l'intervista a Mosca

L'unica lezione da trarre dall'intervista di Carlson a Putin

Micol Flammini

Il presidente russo non rispetta né il trumpismo né il suo giornalista di riferimento, l'americanismo sbiadito dei due è il suo punto di forza. Teme molto di più la Casa Bianca del vecchio e smemorato Joe Biden. Due ore di umiliazione e bullismo 

Vladimir Putin ha un gran rispetto per la Cia e pochissimo per Tucker Carlson. Durante l’intervista, il presidente russo dice al giornalista americano: “Lei voleva unirsi alla Cia, a quanto mi risulta. Per fortuna non l’hanno ammessa, sebbene sia un’agenzia seria”. Carlson rimane attonito, come durante la maggior parte dell’intervista, tranne quando dispensa risate sonore, che Putin ricambia con sorrisi parsimoniosi. Carlson, con il riferimento alla  Cia, ha appena subìto una tecnica di intimidazione, una prassi da interrogatorio da Kgb, in cui Putin lascia intendere di sapere molte cose sul giornalista, di avere un dossier, di saperla lunga, perché lui, contrariamente a Carlson, nei servizi segreti ci ha lavorato: l’hanno voluto e forse lo ritiene il maggior successo della sua vita, più della presidenza.


Putin voleva un palco e si è preso quello in cui si sarebbe sentito più a suo agio, nonostante siano state molte le richieste di interviste dal 24 febbraio del 2022 in poi, lo stesso portavoce del Cremlino, Dmitri Peskov, ha rimarcato che non è vero che i giornalisti internazionali non desiderano parlare con Putin, è stato lui a non voler parlare con loro. Ha scelto l’intervistatore che più rappresenta il tipo di America che piace a Mosca, quella che trama e desidera un americanismo scolorito e disinteressato, che crede alle offerte di pace del presidente che ha causato il conflitto contro Kyiv. Durante l’intervista, Putin ha detto che la sconfitta della Russia è impossibile e che sono almeno diciotto mesi che lui è pronto a porre fine alla guerra, dai tempi nei negoziati di Istanbul, quando fu invece l’allora premier britannico Boris Johnson a fare pressione perché l’Ucraina continuasse a combattere. E’ una ricostruzione non vera che piace molto al Cremlino, che descrive Volodymyr Zelensky come un leader debole nelle mani dell’occidente guerrafondaio. Putin ha dato un consiglio agli americani: “Se davvero volete che la guerra finisca, smettetela di fornire armi”. Carlson annuiva, la pensa esattamente così anche lui e allo stesso modo la pensa Donald Trump, l’ex presidente americano che incontrò Putin per un bilaterale a Helsinki, in Finlandia, nel 2018. In quell’occasione Trump andò in conferenza stampa con Putin al suo fianco e di fronte ai giornalisti allibiti lo scagionò da ogni accusa di interferenze nelle elezioni americane, dicendo di  credere alle parole del presidente russo. Putin sorrideva, l’incontro con il capo della Casa Bianca era andato benissimo: lui aveva dato l’immagine dell’arguto e il suo omologo dell’ingenuotto. Il capo del Cremlino non è un leader raffinato, parla poco e questo lo ha aiutato a costruire l’immagine del calcolatore, ma segue sempre lo stesso schema, è prevedibile e desidera il ritorno di un’America trumpiana, perché è meno temibile, è utile e non smaschererà mai il suo inganno: il modo più semplice di far finire la guerra non è disarmare Kyiv, ma smettere di bombardare l’Ucraina e ritirare l’esercito russo. Di Joe Biden, Putin ha detto: “Non ricordo quando è stata l’ultima volta che gli ho parlato, non posso ricordarmi tutto… Perché dovrei chiamarlo? Di cosa dovrei parlargli? Dovrei chiedergli quali armi fornirà all’Ucraina? Implorarlo di non consegnarle?”. Il capo del Cremlino teme più questa Casa Bianca di quella trumpiana, l’immagine di un leader anziano con problemi di memoria come Biden aiuta la propaganda russa, ma nei fatti rende complicati i piani di Putin. Trump invece li semplificherebbe. E’ per questo che al capo del Cremlino il candidato alle primarie repubblicane piace da pazzi, per questo si fa intervistare dal suo giornalista di riferimento, che ripete “of course”, “certamente”, quando gli sente dire che il povero Adolf Hitler è stato costretto a muovere guerra contro la Polonia: è la prima volta che Putin, da solo, si paragona a Hitler. 


Non c’è stima da parte del Cremlino per il trumpismo: è utilità. Prese in giro, umiliazioni, sorrisi sarcastici sono spesso la risposta di Putin a chi considera vantaggioso: un galoppino della sua politica. Non si sforza neppure di essere gentile o diplomatico, nell’applicare la vita di strada, la mentalità da gangster, prima ai servizi segreti poi alla politica, il presidente russo vede le persone utili come deboli, quindi come umiliabili. E’ questa la lettura che il presidente russo dà di Donald Trump e di Tucker Carlson, con i quali condivide la stessa idea di America, che è più utile a Putin che agli americani. 

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)