Negli Stati Uniti
Il report devastante sulla lucidità di Biden e la risposta alla domanda più difficile
Il presidente da ieri sera vive la peggiore crisi del mandato. La sua memoria diventa un caso e c'è chi si chiede se sia possibile sostituirlo alla corsa per il secondo mandato: si tratta di una procedura politica complicata ma fattibile e che potrebbe sollevare precedenti pesanti. Ma quello che manca è il tempo
Il sistema elettorale americano non è fatto per i ripensamenti. Le regole di fondo sono semplici, ma poco elastiche: ci sono due partiti che scelgono un percorso per arrivare a nominare due candidati e questi alla fine si giocano la presidenza. Cambiare in corsa un candidato è complicato e finora era un tema che riguardava soprattutto Donald Trump e i suoi guai legali (che succede se la Corte suprema lo squalifica o finisce in prigione?). Ma dopo il devastante rapporto del procuratore speciale Robert Hur i riflettori si sono spostati su Joe Biden, che da giovedì sera vive forse la peggiore crisi della sua presidenza dai tempi del caotico ritiro da Kabul.
Hur ha indagato sui documenti riservati che Biden aveva conservato dai tempi della Casa Bianca di Barack Obama. Nelle 388 pagine del rapporto investigativo il presidente viene prosciolto, ma con giudizi pesanti sulle sue capacità mentali. “È un signore anziano ben intenzionato, ma con una pessima memoria”, che sta andando “indebolendosi con l’età”. Inutile processarlo perché verrebbe assolto per incapacità di intendere. Un giudizio caduto come macigno sulla campagna elettorale. Biden e il suo team lo hanno respinto con forza, il presidente ha anche convocato al volo una conferenza stampa per reagire, ma poi nel rispondere alle domande su Gaza ha finito per confondersi sul presidente egiziano al Sisi, definendolo il leader del Messico. I problemi di Trump sono finiti in un attimo in secondo piano, dando spazio invece agli interrogativi sulla capacità di Biden di reggere, a ottantuno anni, la candidatura a un secondo mandato che lo terrebbe in carica fino a ottantasei.
Sostituire un candidato si può, ma non è semplicissimo. E diventa sempre più complesso via via che il processo elettorale avanza verso il voto del 5 novembre. Cambiare adesso Trump o Biden è fattibile, ma già complesso. Cambiarli a giugno alla fine delle primarie e prima delle convention lo è ancora di più. Cambiarli durante le convention o dopo che sono state formalizzate le nomine, è un incubo politico. In ogni caso, ci si muove sempre su terreni con pochi precedenti e quindi in scenari di enorme incertezza.
È fondamentale ricordare come funziona il sistema delle primarie. Gli elettori democratici e repubblicani non scelgono direttamente il candidato presidente, eleggono invece stato per stato un certo numero di delegati da mandare alle due convention che daranno l’investitura formale: quella dei repubblicani a luglio a Milwaukee e quella democratica ad agosto a Chicago. Il processo di selezione dei delegati è già cominciato, per i repubblicani con i voti in Iowa, New Hampshire e Nevada, per i democratici (dove Biden corre praticamente senza avversari) con un primo voto in Carolina del sud. Da qui a giugno saranno stati eletti 2.429 delegati per la convention repubblicana e 3.934 per quella democratica, ai quali poi si aggiungeranno (specie per i democratici) alcune centinaia di notabili del partito con diritto di voto.
Se Biden o Trump si ritirassero adesso – o se avessero un qualche impedimento che li costringa a rinunciare – non ci sarebbero più i tempi di legge per far candidare qualcun altro alle primarie. Il 12 marzo i repubblicani avranno scelto più della metà dei delegati, il 19 marzo i democratici arriveranno allo stesso traguardo. E questi delegati saranno stati eletti con lo specifico mandato di votare alla convention per Biden o per Trump (o per Nikki Haley, che è ancora in corsa). Se il loro candidato si ritira, i delegati diventerebbero “uncommitted”, cioè non più vincolati nel voto. Nel caso dei democratici, se si ritirasse Biden non sarebbero vincolati neppure a votare per Kamala Harris, che figura nello stesso ticket, perché alla convention democratica i candidati presidente e vicepresidente vengono votati separatamente.
I delegati, che sono piccoli funzionari locali che ricevono questo ruolo in premio ogni quattro anni, all’improvviso diverrebbero potentissimi. Nuovi candidati che volessero prendere il posto di Biden o Trump dovrebbero convincerli a spostare su di loro il voto. Con la complicazione ulteriore che i delegati democratici sono “pledged”, cioè hanno fatto una promessa al candidato e sono più liberi (ma ogni stato ha le sue regole), mentre i repubblicani sono “bound” e quindi in teoria vincolati sul voto.
Se si arrivasse a una convention con i delegati senza più vincoli, si tornerebbe agli scenari della politica americana pre 1968, quando le primarie contavano poco e tutta la battaglia era per fare accordi e vincere l’assemblea estiva. Un eventuale nuovo candidato democratico, per esempio il governatore della California Gavin Newsom – il nome che circola di più come alternativa a Biden – avrebbe bisogno innanzitutto di trovare almeno 300 delegati che propongono il suo nome e poi di raggiungere una maggioranza nelle votazioni, che diventerebbero un suq politico. A complicare il tutto c’è il fatto che i delegati rispondono alle regole del proprio stato su come interpretare il loro ruolo e mandato.
Se il cambio del candidato avvenisse dopo le convention, negli ultimi due mesi prima del voto, si entrerebbe nella fantapolitica perché non ci sono precedenti. I democratici hanno previsto nel loro statuto la possibilità che il candidato muoia o abbia un impedimento grave dopo la convention. In questo caso a decidere con chi sostituirlo tocca al Democratic National Committee, il massimo organo del partito, con un voto dei suoi 486 membri. Ma le regole del gioco e delle candidature sarebbero tutte da inventare.