l'editoriale dell'elefantino
Piangere una tragedia e capirne le radici. Israele e quella prova di Amleto
Quello di Israele non è una vendetta cieca, ma un modo, l’unico, forse persino perdente nell’esito finale, di difendere democrazia, libertà, vita anche per conto dell’occidente e dell’Europa tremebonda e insicura
Essere o non essere. Israele non si può permettere la filosofia di Amleto. Il pogrom del 7 ottobre impone a quel paese e a quel popolo di eliminare il suo nemico definitivamente, per essere e per esistere. Non è più complicato di così. A qualunque prezzo? A qualunque prezzo. Le vittime civili della guerra, donne vecchi bambini ragazzi adulti, la morte la sete la fame lo sfollamento le mutilazioni le malattie; l’abbandono dei loro territori al sud e al nord da parte degli ebrei minacciati di annientamento; la degradazione dell’economia, della pace nello sviluppo, dell’immagine internazionale del rifugio ebraico (Golda Meir si domandava che cosa farne della pietà mondiale quando si è morti ammazzati, Fiamma Nirenstein dice che una volta l’unico ebreo tollerato era quello morto, ora fase seconda, non vanno bene né morti né vivi). Con l’Ucraina nemmeno tanto sullo sfondo, con il bellicismo delle autocrazie contro le democrazia, con il dilagare del fanatismo sterminatore islamista, con l’Iran prenucleare alleato di Cina e Russia, con tutto questo davvero si può pensare che quello che accade dipenda da un governo di destra o dall’ambizione politica nera di Netanyahu?
Piangere una tragedia è sacro, siamo tutti parte del coro, non lo si può e non lo si deve evitare. Capirne le radici è realistico e pietoso insieme. Le tregue fanno parte delle guerre. La tregua che chiede Hamas è la sconfitta di Israele, la sua definitiva disumanizzazione, una cosa che gli ebrei divisi come non mai rigettano all’unanimità. Li si può processare per questo? Se al posto di Netanyahu ci fossero Ganz o Lapid, l’opposizione che è nel gabinetto di guerra e quella che ne è restata fuori, si comporterebbero precisamente nello stesso modo, e se non lo facessero sarebbero travolti. Se Hamas si scava un altro bunker, bisogna espugnarlo con altre vittime civili, con il sacrificio dei soldati come conseguenza. Lo sradicamento del terrore e la smilitarizzazione forzata non sono una possibilità per Israele, sono un obbligo. E le tragedie sono sempre connotate dall’inevitabilità del loro procedere tenebroso e moralmente impossibile da giudicare.
Evacuare, risparmiare il più alto numero possibile di vittime della guerra, tutto questo è nell’interesse dell’umanità e del suo avamposto israeliano, che non disumanizza nessuno, come suggerisce obliquamente il liberal Blinken, piuttosto restaura l’umanità dove si era perduta, nelle nuove Auschwitz. Se Hamas resta dov’è senza pagare il prezzo finale del pogrom e senza essere smantellata, il segnale è luce verde per la Cisgiordania, riunificata nelle coscienze militanti islamiste dal 7 ottobre, per gli Hezbollah nel nord, per gli Houti, per l’Iran e i suoi pasdaran di Siria e Iraq, per le ambizioni di Mosca e Pechino. Quello di Israele non è un lavoro sporco, una vendetta cieca, ma un modo, l’unico, forse persino perdente nell’esito finale ma unico e necessario nella sua tremenda origine, di difendere democrazia, libertà, vita anche per conto dell’occidente e dell’Europa tremebonda e insicura. Che questo compito o destino tocchi alle vittime della Shoah e ai loro discendenti e testimoni di un paese tecnologico e postmoderno, ma dotato di un’anima d’acciaio, è una tragedia nella tragedia. L’inevitabile nell’inevitabile.
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