Le elezioni in Indonesia sono un test per l'islam moderato (e non solo)
Al voto oggi, l'anno elettorale più importante della storia
Oltre 200 milioni di elettori vanno oggi alle urne per eleggere il presidente, il vicepresidente e i loro rappresentanti a ogni livello politico e amministrativo di quello che è il quarto paese al mondo per popolazione, il più grande stato arcipelagico del mondo. L'eredità di Jokowi
Nusantara è un termine sanscrito poi Malay che rappresenta un grande regno marino. Un regno esistito solo in una geografia che raggruppava coste e isole unite dai traffici, dalle rotte dei mercanti, dai porti, dalle tradizioni marittime. E' stato anche definito il “Sud-est asiatico marittimo”. Nusantara è il nome della futura capitale indonesiana. Un’immensa cattedrale sorta deforestando un’immensa parte del Kalimantan, il Borneo Indonesiano. Nusantara dovrebbe essere ufficialmente inaugurata il 17 agosto di quest’anno, in coincidenza del giorno della proclamazione dell’indipendenza nel 1945
Nomen Omen: se il nome è un destino, in questo caso Nusantara è il segno dell’importanza delle elezioni del 14 febbraio, quando oltre 200 milioni di elettori (oltre la metà sotto i quarant’anni) saranno chiamati a eleggere il presidente, il vicepresidente e i loro rappresentanti a ogni livello politico e amministrativo di quello che è il quarto paese al mondo per popolazione
L’Indonesia, dunque, è uno stato che sulla carta si può in gran parte sovrapporre ai confini del sud-est asiatico marittimo. E' il più grande stato arcipelagico del mondo, comprende oltre 17mila isole tra l’Oceano Indiano e il Pacifico per oltre 5000 chilometri, poco meno della distanza tra Roma e Delhi. Geopoliticamente controlla i più critici chokepoint tra i due oceani, dallo stretto di Malacca, a quello di Torres, delimita le linee strategiche di un’ipotetica guerra nel Pacifico occidentale, segna il confine meridionale del Mar della Cina del Sud. L’importanza geopolitica attuale, dunque, è quasi maggiore rispetto al periodo della guerra fredda, quando i primi due presidenti governarono da dittatori col sostegno dei militari: Sukarno spostando l’Indonesia nel fronte antimperialista e comunista, Suharto in quello occidentale e anticomunista caratterizzato da un periodo di stragi di massa.
A definire l’importanza di queste elezioni sono altre due definizioni, un po’ enfatiche, più relative che reali. L’Indonesia, infatti è definita la terza democrazia al mondo in ordine di grandezza (dopo India e Usa) e la più grande nazione musulmana moderata. L’elezione del 14, dunque, viene considerata un test dell’integrità di queste definizioni. Quindi, sempre in termini di relativismo, del conseguente effetto contagio sulle altre nazioni dell’Asean.
Secondo Rosalia Sciortino Sumaryono, direttrice della Sea Junction di Bangkok, un centro di studi sul sud-est asiatico, una delle più attente analiste della politica indonesiana, è un test ad alto rischio “in un processo rovinato da macchinazioni machiavelliche, espedienti populisti e pratiche non etiche che coinvolgono l’attuale presidente Joko Widodo”.
Se il presidente, più conosciuto come Jokowi, potesse ricandidarsi, molto probabilmente sarebbe rieletto, forte di un consenso popolare del 75 per cento. La maggioranza degli indonesiani apprezza la sua politica economica, che sembra coniugare crescita economica (stabile al 5 per cento annuo circa) sviluppo delle infrastrutture e welfare. Ma poiché non è possibile un terzo mandato, Jokowi ha adottato una politica sempre più diffusa in sud-est asiatico, in Thailandia come nelle Filippine: quella dinastica. Ha candidato alla carica di vicepresidente suo figlio Gibran Rakabuming Raka, 36 anni. Alla carica di presidente, in questa “macchinazione machiavellica”, è candidato l’attuale ministro della Difesa Prabowo Subianto, ex acerrimo rivale di Jokowi, che lo ha sconfitto nelle due precedenti elezioni, ora convertito a suo ammiratore numero uno. Secondo Andreas Harsono di Human Rights Watch in Indonesia, questo rappresenta “il maggior rischio per la democrazia dai tempi di Suharto”, il dittatore che ha governato dal 1965 al ’98. Prabowo, infatti, è un ex generale nonché genero di Suharto, noto per le sue attività di repressione degli indipendentisti a Timor Est e a Papua e per il suo scarso rispetto dei diritti umani.
La possibilità di un ritorno all’autocrazia dinastica non sembra disturbare troppo gli indonesiani e nei sondaggi Prabowo resta ampiamente in testa. Ma un certo scontento deve esserci perché non sembra così sicuro che possa ottenere il 50 per cento dei voti (e almeno il 20 per cento in 20 provincie) che gli assicurerebbe la vittoria al primo turno.
Gli altri due candidati alla presidenza, il governatore di Jakarta Anies Baswedan e l’ex governatore di Central Java Ganjar Pranowo, sono dati entrambi al 20 per cento ciascuno con leggere oscillazioni in favore dell’uno o dell’altro. Per entrambi, tanto più in caso di ballottaggio, potrebbe essere decisivo l’appoggio delle organizzazioni musulmane. Del resto, com’è stato notato, l’elettorato indonesiano non presta molta attenzione alla politica estera. A eccezione della questione palestinese.
Anies, in particolare, sembra corteggiare gruppi islamici intransigenti, alimentando la politica identitaria e corre al fianco di Muhaimin Iskandar, leader del più grande partito islamico, il Partai Kebangkitan Bangsa, partito del risveglio nazionale. Una posizione che gli ha fatto guadagnare il favore delle élite intellettuali. Ganjar Pranowo, invece, spera di capitalizzare i suoi contatti con la Nahdlatul Ulama, la maggior organizzazione islamica moderata, si presenta come il “presidente del popolo” e promette che almeno un figlio in ogni famiglia avrà l’accesso all’università assicurato. Dei tre candidati è sicuramente quello che riscuote più successo per l’aspetto fisico, sottolineato da una chioma candida.
Non si sa se l’Indonesia abbia assimilato le virtù della democrazia. Sicuramente sembra averne preso molti dei vizi.
I conservatori inglesi