L'analisi
La pace e la libertà si difendono preparandosi al peggio, cioè Putin
Solo rafforzando il pilastro europeo della Nato possiamo difenderci dalle minacce russe, Riarmo, aumento del budget per la Difesa, sviluppo di nuovi sistemi. È questo ciò che serve all’Unione europea per scoraggiare l’imperialismo di Mosca
È un segnale importante quello che proviene dalla Germania, che testimonia come a Berlino vengano considerate con estrema serietà due variabili decisive per la sopravvivenza delle democrazie nel Vecchio continente e della stessa Unione europea. La Germania ha infatti dato avvio alla realizzazione del più grande stabilimento per la produzione di munizionamento d’artiglieria sul suo territorio. A regime, entro i prossimi dodici mesi, sarà in grado di produrre due milioni di proiettili all’anno, così da poter rifornire tanto la Bundeswehr (le Forze armate tedesche), quanto l’Ucraina (che da quasi due anni sta fronteggiando la brutale aggressione russa), quanto gli alleati che ne facciano richiesta. Il governo federale ha anche annunciato che già quest’anno il bilancio della Difesa tedesca raggiungerà la soglia del 2 per cento del pil, l’obiettivo fissato di comune accordo da tutti i membri della Nato una decina di anni fa per concorrere in maniera più equilibrata alla Difesa comune, ma che pochissimi paesi hanno raggiunto o anche solo si apprestano a raggiungere. Tra gli inadempienti, ancora una volta, c’è ovviamente anche l’Italia, i cui governi, a prescindere dalla colorazione politica, non riescono evidentemente a cogliere la gravità della situazione e preferiscono rifugiarsi in dichiarazioni di rito e in generici appelli alla pace.
Dicevamo delle due variabili decisive: la prima era intuibile almeno dal 2008, quando Putin, durante la Conferenza per la sicurezza di Monaco, si lanciò in un furibondo attacco contro la Nato e l’ordine liberale guidato dagli Stati Uniti, si è manifestato a più riprese attraverso la “guerra sporca” contro la Georgia nell’agosto dello stesso anno e con l’annessione della Crimea ucraina nel 2014, ed è sotto gli occhi di tutti dalla guerra di aggressione scatenata dal Cremlino contro Kyiv nel febbraio 2022. Dall’inizio della guerra in poi, Mosca ha continuamente alzato il livello della minaccia nei confronti dell’Europa, sostenendo che “non esistono confini naturali per la Russia” e arrivando a vagheggiare, nella propaganda direttamente ispirata da Vladimir Putin, la rivendicazione dei confini dell’Impero russo prima del 1917.
La seconda minaccia è costituita dalla prospettiva che negli Stati Uniti, alle elezioni presidenziali del prossimo novembre, possa prevalere un candidato non solo apertamente isolazionista, sleale verso la Costituzione e accusato di aver cospirato contro la democrazia americana per l’assalto al Campidoglio del 6 gennaio del 2021, ma che addirittura ha dichiarato appena pochi giorni fa che “i russi fanno bene a fare quello che vogliono” e che quando sarà presidente non si sentirà impegnato “a proteggere i paesi della Nato che non pagano quanto concordato per la Difesa comune”.
Si tratta di due minacce di natura e provenienza diversa: la prima esterna e la seconda interna rispetto al consesso delle democrazie, la cui combinazione rischia però di essere letale. Il loro addensarsi sulle nostre teste dovrebbe indurre i governi, le classi dirigenti, e l’opinione pubblica a reagire in maniera pronta e razionale. Provvedendo cioè a mettersi in sicurezza rispetto a un dato di fatto – l’aggressione continua e brutale da parte della Russia – e a una possibilità tutt’altro che remota – il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca. Detto con estrema franchezza, le democrazie europee dovrebbero ingaggiare una lotta contro il tempo per costruire una propria credibile deterrenza nei confronti della Russia di Putin tale da scoraggiare un tiranno sempre più paranoico e megalomane dal tentare di sottometterle al suo dominio. Così rafforzando il pilastro europeo della Nato e rendendo anche l’Alleanza atlantica più solida politicamente e militarmente. Questo significa procedere rapidamente al proprio riarmo, aumentare i budget della Difesa, accelerare i progetti per lo sviluppo dei nuovi sistemi d’arma e di comando e controllo a partire dalle lezioni apprese in questi due anni di guerra e aumentare il numero degli effettivi. Il principale ammonimento che la guerra russa contro l’Ucraina ci sta lanciando è che il potenziale umano conta ancora e che la tecnologia, per quanto sofisticata, non è in grado di azzerare il vantaggio quantitativo rappresentato dal fattore umano.
È questa consapevolezza che ha spinto qualche settimana fa il ministro della Difesa Guido Crosetto a risollevare la questione della necessità, anche per l’Italia, di dotarsi di una Riserva sufficientemente numerosa – e non rappresentata da poche centinaia di specialisti – bene addestrata e richiamabile in caso di conflitto o crisi. Si tratta della sola alternativa plausibile alla reintroduzione della leva obbligatoria, tanto per essere chiari (evidentemente una cosa ben diversa da quella “mini-naja” di cui sproloquia di tanto in tanto Salvini nei suoi deliri di irreggimentazione della gioventù). Una simile consapevolezza appare però tutt’altro che diffusa nel nostro paese. La difesa continua a essere un tabù nel dibattito politico e persino in quello intellettuale, dove prevalgono semplificazioni del tipo “a cosa servono soldati, carri armati, navi e aerei in un mondo dove esistono le armi atomiche”. Si applicano cioè i consunti stilemi della Guerra fredda, continuando a fingere di non vedere che le armi atomiche da sole non esercitano più la stessa capacità di deterrenza, in un mondo nuovo che non è più diviso in solidi blocchi ideologicamente oltre che militarmente contrapposti, ma è molto più labilmente organizzato intorno a princìpi che possono persino determinare allineamenti contraddittori. Basti pensare alla democrazia liberale e al mercato e alle loro rispettive logiche sempre meno sovrapposte o convergenti. Russia e Cina, tanto per non far nomi, sono entrambe ancora parte del grande mercato globale, ma sono sempre più ostili e minacciose verso le democrazie, arrivando a stringere relazioni militari via via più strette con alcuni dei peggiori regimi del pianeta come la Corea del nord e l’Iran. E intanto vediamo come la gravissima crisi mediorientale – riesplosa con la terribile strage del 7 ottobre e alimentata dalla successiva mattanza di Gaza – stia rimescolando le carte e oggettivamente distraendo l’Europa dalle oggettive minacce esistenziali alla propria sicurezza rappresentate dal comportamento russo e dalla prospettiva di una seconda presidenza Trump.
Aleggia sul nostro continente un atteggiamento già visto quasi cento anni orsono, con lo “spirito di Monaco 1938”, quell’appeasement nei confronti di un aggressore che non faceva mistero dei propri progetti, che facilitò lo scoppio della Seconda guerra mondiale, quando la fermezza l’avrebbe probabilmente impedito. Allora, dovettero entrare in guerra gli Stati Uniti, per consentire di sconfiggere il nazismo e salvare contemporaneamente le democrazie (la quale accoppiata non si sarebbe certo prodotta se Hitler fosse stato sconfitto solo da Stalin). Ma per due interminabili anni fu l’Impero britannico da solo, guidato da un gigante come Winston Churchill e senza l’aggressione diretta del Giappone agli Stati Uniti e la successiva dichiarazione di guerra da parte di Germania e Italia a Washington la discesa in campo dell’America non sarebbe stata per nulla scontata. Ma l’Impero britannico non esiste più e non si vede nessun Churchill in tutta Europa.
Se l’Unione europea e i paesi che ne fanno parte – le cui risorse economiche e demografiche surclassano di molte volte quelle russe – non si mettono rapidamente nella condizione di poter scoraggiare qualunque folle disegno imperialista di Putin il rischio di ritrovarci alla mercé della Russia e di perdere la nostra sovranità e la nostra libertà si fa estremamente concreto. La pace e la libertà non si difendono con i proclami e i sermoni, ma solamente preparandosi al peggio, affinché proprio il peggio possa essere scongiurato.
Isteria migratoria