Un ragazzo sventola la bandiera di Israele a Gerusalemme (foto LaPresse)

L'intervista

Come “l'ecosistema israeliano” può reagire ai danni economici della guerra

Fabiana Magrì

"Ci sono centinaia di migliaia di persone, in Israele oggi, che rientrano nella fascia demografica del potenziale startupper. Quando l’elaborazione del trauma sarà finita, vorranno lanciarsi nuovamente nel mondo del lavoro con tutta l’energia”, dice Or Haviv, partner di Arieli Capital

Tel Aviv. “L’ecosistema israeliano è come una fonte nel deserto che sta producendo sempre più acqua. Non è in secca. È solo che in questo momento è difficile raggiungerla a causa delle condizioni intorno al pozzo. Vedrai che l’economia israeliana, non solo non sarà danneggiata nel lungo periodo. Al contrario, da questa situazione uscirà rafforzata”. È incrollabile l’ottimismo di Or Haviv, partner di Arieli Capital, anche nel giorno in cui l’Ufficio centrale di statistica pubblica i dati relativi al quarto trimestre del 2023, quello coinciso con l’aggressione di Hamas alle comunità dell’“Otef Aza”, la cintura di terreni, kibbutzim e moshavim più vicini alla Striscia, e con l’avvio della controffensiva terrestre nella Striscia di Gaza. 


Il sito The Marker scrive che i consumi privati sono calati del 27 per cento rispetto al trimestre precedente, mentre la spesa pubblica (civile e militare) è cresciuta dell’88 per cento. Influenze molto negative, aggiunge il quotidiano economico, sono state registrate negli investimenti e nelle esportazioni. “Nel breve termine – dice Haviv in un colloquio con il Foglio nel suo ufficio di Herzliya – è un problema. Le persone perdono il lavoro, le aziende chiudono, molti investitori si siedono sui loro soldi temendo di investire”. Ma, spiega il capo dell’innovazione della piattaforma globale Arieli, si tratta di “tempi difficili” che gli esperti del settore avevano avvistato almeno da due anni. Nessuno aveva previsto la guerra così come si è manifestata a ottobre. “Ma due anni fa – ricorda – l’economia stava già rallentando, soprattutto nei settori dell’high tech e dell’alto rischio. Si investiva ancora ma molto meno”. Oggi il mercato è dominato dagli investitori più che dalle startup e il rapporto, rispetto a quando i talent scout del business si litigavano le migliori promettenti imprese si è invertito. Ecco perché una cordata di leader del comparto tecnologico israeliano (tra cui Arieli Capital), guidata dall’imprenditore Erel Margalit, si sono dati appuntamento oggi al kibbutz Mahanayim per dedicare una giornata di incontri business-to-business all’ecosistema dell’Alta Galilea impattato dalle sfide in tempo di guerra. Un piccolo passo verso un “graduale ma necessario ritorno al nord”, dice il fondatore e presidente della Margalit Startup City Galil, nonostante il secondo fronte del conflitto – quello tra Israele e  Hezbollah nel sud del Libano – sembri destinato a deflagrare quando si chiuderà il conto a Gaza, dopo il completamento dell’operazione annunciata a Rafah.

“Il motivo per cui siamo coinvolti nella periferia del paese – spiega ancora Haviv – è un senso di responsabilità. Quando ti occupi di innovazione hai a che fare con l’unica cosa che realmente separa gli esseri umani dalle altre creature in natura. Non siamo i più veloci tra gli animali e non siamo i più forti. Non possiamo volare né respirare sott’acqua. Ma possiamo realizzare i nostri sogni, far atterrare un’astronave su un asteroide, costruire un ponte, trovare una cura. Esistono già soluzioni a quasi tutti i problemi del mondo. Le incontro ogni giorno nelle istituzioni accademiche con cui collaboro e in cui investiamo. Qualcuno le ha già inventate. Quello che manca è un aiuto per realizzarle”.

Attraverso le lenti di ottimismo con cui Haviv guarda al mondo, anche il trauma nella società israeliana è un “acceleratore” di opportunità, come fu il Covid: “C’è un’intera generazione che sta sperimentando sofferenze che porteranno a realizzare qualcosa di grande impatto. Quello di cui l’innovazione ha bisogno sono persone ‘affamate’, con valori forti, che vogliano cambiare il mondo. Ci sono centinaia di migliaia di persone, in Israele oggi, che rientrano nella fascia demografica del potenziale startupper. Quando l’elaborazione del trauma sarà finita, vorranno lanciarsi nuovamente nel mondo del lavoro con tutta l’energia”.

Or Haviv, un ex militare pluridecorato per il suo servizio nelle forze speciali antiterrorismo e dell’aeronautica, con un master alla Ben Gurion University nel Negev in gestione e risoluzione dei conflitti, crede che la soluzione per tutto sia l’istruzione: “C’è una risposta a tutti i problemi del mondo: la formazione scolastica. Una volta che avrai istruito le persone con i giusti valori, tutti i tuoi problemi scompariranno”. Quanto sta emergendo dalle indagini sull’Unrwa – gli chiediamo – dev’essere una grande sofferenza. “Dobbiamo agire come umanità con la consapevolezza che siamo un popolo, una specie. L’umanità non è solo un villaggio ma è una famiglia globale. Dobbiamo prenderci cura gli uni degli altri”. 
 

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