cortocircuiti

Gli atenei costretti ad accontentare gli studenti per non dover pagare i danni

Antonio Gurrado

L’Università di Bristol è appena stata condannata a pagare cinquantamila sterline di risarcimento (incluse le spese funebri) alla famiglia di Natasha Abrahart, una ventenne iscritta a Fisica che si è uccisa nel 2018 secondo una legge che alza un pericoloso precedente

Partiamo dal presupposto che un’Università non dovrebbe mai trovarsi nella necessità di pagare le spese per il funerale di un suo alunno morto suicida. Sia nel senso che è auspicabile che gli studenti vivano gli anni prima della laurea come un periodo gradevole, il primo di libertà responsabilizzata, forse l’unico della vita in cui potranno imparare nuove nozioni esplorando ciò che preferiscono. Sia nel senso che, quando malauguratamente un universitario si uccide, non dovrebbe essere così immediato scaricare la colpa su un ateneo.
 

Invece l’Università di Bristol è appena stata condannata a pagare cinquantamila sterline di risarcimento (incluse le spese funebri) alla famiglia di Natasha Abrahart, una ventenne iscritta a Fisica che si è uccisa nel 2018. La singola storia, ovviamente, è tragica. La studentessa si è suicidata nel giorno in cui avrebbe dovuto tenere una presentazione davanti ai suoi compagni di studio; le era stato diagnosticato un disturbo d’ansia, in base a cui dover esporre e venire valutata pubblicamente le avrebbe causato un incontrollabile senso di panico. L’ateneo è stato pertanto ritenuto colpevole di avere infranto l’Equality Act, una legge del 2010 che regola la casuistica su ogni tipo di possibile discriminazione; nello specifico, l’Università di Bristol ha contravvenuto alla sezione relativa al trattamento delle disabilità, in cui rientrano anche i disturbi psicologici.
 

Condannato nel 2022, l’ateneo ha ora perso l’appello. La colpa specifica è di non avere fornito adeguata formazione al personale, in modo tale che potesse individuare prove di verifica alternative per gli studenti affetti da questo tipo di problemi. Resta da vedere se l’Università di Bristol vorrà invece rivalersi sul docente che ha voluto imporre alla studentessa fragile la stessa verifica prevista per gli altri alunni. Se accadesse, potrebbe venire ulteriormente accelerato il crollo definitivo della libertà d’insegnamento.
 

Oltre al triste caso di cronaca, infatti, conta anche la ricaduta sociale; ciò dovrebbe indurre a utilizzare un po’ meno i sentimenti e un po’ di più la ragione. La questione della discriminazione degli studenti va oltre i confini della certificazione della disabilità: fra i commenti alla notizia, infatti, spiccano quelli di chi richiede che le università si mostrino comprensive andando incontro ai bisogni speciali degli alunni anche in assenza della certificazione di un qualsiasi disturbo. L’idea è che agli atenei venga imposto uno “statutory duty of care” per tutti, ovvero l’obbligo legale di tenere da conto le specificità di ogni singolo studente, a pena di incorrere nell’accusa di negligenza.
 

Significa, in sostanza, che ogni studente potrà ritagliarsi su misura l’università che gli pare. Se si sente debole nell’orale perché gli vengono i vapori quando il docente lo guarda negli occhi, avrà diritto di sostenere solo prove scritte. Se si sente debole nello scritto perché fissare il foglio bianco lo precipita nell’angoscia, avrà diritto di sostenere solo prove orali. E così via con bizantinismi i cui eccessi causerebbero un effetto comico fastidioso in un articolo che parla di un suicidio, ma che possono essere facili da immaginare e difficilissimi da frenare.
 

C’è, inutile dirlo, anzitutto da definire cosa sia la discriminazione. Per alcuni è discriminatorio trattare in modo differente persone che stanno concorrendo allo stesso titolo, per altri è discriminatorio trattare allo stesso modo persone che hanno esigenze e specificità differenti. È un’impasse di ardua soluzione, impossibile forse. A meno di spostare il baricentro da prendere in considerazione quando si parla del benessere degli studenti: concentrarsi dunque non più su quello attuale ma su quello futuro. Fa meglio un’università che alza l’asticella per gli studenti, ponendoli di fronte a difficoltà di cui imparare a prendere le misure, o una che li accontenta in tutto, prima di abbandonarli da laureati a un mondo in cui, prima o poi, bisognerà anche saper fare qualcosa di cui si ha paura? 

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