Due storie opposte
Navalny e Assange, storie agli antipodi
Uno ha sfidato un regime sanguinario che detesta lo stato di diritto, l’altro tenta di sottrarsi alle leggi mettendo a repentaglio l’incolumità di chi si batte per la nostra libertà. Non potrebbero essere più diversi
Le truppe russe avanzano in Europa, uno lo hanno fatto fuori in Siberia, l’altro in Bielorussia, uno sterminio di civili e militari è in atto da due anni e più in Ucraina, chi difende la nostra libertà deve cercare di farlo senza le nostre munizioni, ai russi le munizioni arrivano da Kim Jong Un e da Ali Khamenei senza particolari problemi, popolo e carcerati da mandare al macello per un regime che al posto del delitto Matteotti mette le importazioni di banane dall’Ecuador non sono un vero problema, quelli di Hamas fanno la spola con Mosca, noi dobbiamo aspettare che Victoria Sharp e Adam Johnson, giudici a Londra, decidano dell’estradabilità negli Stati Uniti di Julian Assange, un tizio o un eroe che nel 2007 diffuse materiali sensibili sulla sicurezza nazionale degli Usa in guerra a Kabul e a Falluja mettendo in piazza, con qualche serio rischio per l’incolumità di informatori e soldati della Cia e del Pentagono, le magagne dello stato e dell’esercito senza i quali la nostra libertà non esisterebbe proprio.
Per chi osa fare paragoni, basta ricordare che Navalny ha offerto corpo e anima all’ingiustizia assoluta di un autocrate, avvelenatore e cacciatore universale di nemici dello stato di polizia, e lo ha fatto alla ricerca della libertà, Assange cerca con successo, un successo giurisdizionale di cui noi liberali sinceri e insinceri ci compiacciamo, di sottrarre il suo corpo e la sua anima alla legge che regola e protegge una libertà esistente dai suoi nemici interni ed esterni: scriverai e diffonderai la verità ma non manderai al macello chi, uomini donne e strutture, la custodisce per conto della comunità, del National Security State, su mandato del popolo sovrano e della sua democrazia politica. Puoi provarci, ma ci sono conseguenze legali, dal tribunale alla Corte europea dei diritti dell’uomo. Sono due percorsi diversi, la sfida all’avvocatura di generali e intelligence, ossatura e barriera protettiva di uno stato democratico, e l’autoconsegna alla prigione in Siberia dopo che ti hanno avvelenato, e almeno su questo le persone sane di mente dovrebbero concordare senz’altro. Lo stato ha una cattiva fama, anche se liberale e democratico, anche se soggetto al diritto, anche se legittimato da elezioni e stampa libera e libertà di associazione. Cercare di abbatterlo è lecito, ma non privo di rischi. I giudici di Londra non ci vanno per le spicce, esaminano fatti e norme, perché lo stato è la loro materia e li protegge nel loro mestiere di custodi delle leggi.
Una sentenza favorevole ad Assange fu già pronunciata. Un decreto a lui contrario fu già cassato. Ora c’è il probabile ricorso in Europa, il Regno Unito ha lasciato l’Unione ma non le convenzioni giuridiche maggiori che la sorreggono. L’augurio per Assange è che superi la prova legale, che possa tornare dalla moglie che ha sposato durante il soggiorno obbligato all’ambasciata londinese dell’Ecuador, inseguito da un mandato di cattura di un certo peso, facendo nel frattempo due bei figlioli, e che nel carcere di Belmarsh il riscaldamento funzioni meglio che nella tana del lupo siberiano, senza pericoli di Novichok in mensa. Più che un augurio, alcune di queste cose sono una certezza. Quelli di Abu Ghraib sono stati condannati. Quelli di Guantánamo sono stati legittimati anche dall’elegantissimo Obama, visti i disastri senza riparo del terrorismo internazionale islamista. E giusto a proposito. L’Iraq non sta messo benissimo, certe ritirate si pagano, ma non è più uno stato canaglia nelle mani lorde di sangue della famigliola di Saddam Hussein. In Afghanistan, grazie ai miracoli del National Security State, una generazione di ragazze ha potuto studiare, si è ascoltata musica, si sono svelati volti di persone, poi all’atto della ritirata si è visto come è finito, aggrappato agli aerei in partenza da Kabul, quel paese da favola denunciato come vittima degli americani da WikiLeaks. Nel resto della sua vita Assange avrà molto da pensare su quel lancio fatale di agenzie rubate ai danni delle maggiori barriere d’interdizione della barbarie mondiale, si spera possa farlo in libertà per via della sovranità della legge, altrimenti 175 anni sono anche pochi.