Dalla nostra inviata

Tutti i crimini di Putin ancora nascosti dalla terra ucraina

Micol Flammini

Il telefono di un soldato russo ha mostrato l’occupazione del villaggio di Novy Basan, nella regione di Chernihiv, dove oggi c’è un ufficio del turismo che racconta l’invasione. Chi sono i visitatori del trauma e un dubbio arrivato da Chernobyl

Chernihiv, dalla nostra inviata. Novy Basan si trova nella regione di Chernihiv, a nord, vicino al confine con la Bielorussia. Le truppe russe, approfittando dell’ospitalità del dittatore di Minsk, Aljaksandr Lukashenka, fecero presto a raggiungere l’oblast, che attaccarono  da diverse direzioni. La terra di Chernihiv è un laboratorio, nasconde la storia delle prime settimane di occupazione, si cammina sui crimini ancora da scoprire. Ogni villaggio che si trova attorno alla città principale che dà il nome a tutta la regione, Chernihiv, è  puntellato di incubi, molti ancora da scoprire, altri rimossi. 

 

 

Novy Basan è stato occupato nei primi giorni di marzo, non tutti i crimini si trovano nel terreno, alcuni sono immagini, documenti, filmati. Alcuni video sono sopravvissuti all’invasione: i soldati russi sparavano alle telecamere, volevano cancellare le prove e preferivano evitare di avere occhi digitali addosso. Da Novy Basan è riemerso un filmato che mostra i cittadini legati l’uno all’altro, bendati, costretti a camminare in fila. E’ stato un soldato russo a registrarlo, poi è morto al fronte ed è stato scoperto che nel suo telefono più che segreti militari c’erano le prove dell’occupazione. Ancora nuove prove, oltre a quelle che riemergono dai ricordi, dagli scantinati, dalle mura e dalla terra. 

 

L’orrore di Bucha è stato un metodo, non un caso isolato, non la pazzia di un gruppo di soldati più violento di altri. Ogni regione che ha subìto l’invasione ha la sua Bucha, nell’oblast di Chernihiv ce ne sono molte. Chernihiv stessa ha avuto i russi a poca distanza, si potevano vedere i loro carri armati a poca distanza dal cimitero improvvisato in cui gli abitanti andavano a seppellire i loro morti: tanti, continui, non si potevano tenere nei rifugi o in casa. I carri armati russi coprivano l’orizzonte e i Mig coprivano il cielo, le ore per uscire e contarsi tra i cittadini rimasti, per dividersi tra i vivi e i morti, erano poche. Prima dell’invasione, Chernihiv aveva poco meno di trecentomila abitanti, il 70 per cento degli edifici è stato distrutto e i morti tra i civili sono stati più di settecento: c’è voluto uno spazio a parte per seppellirli tutti. Nella città ci sono due cimiteri, uno antico e uno nuovo. Durante i bombardamenti era troppo pericoloso raggiungere quello nuovo, così i cittadini portavano le spoglie dei loro morti vicino a quello vecchio, in una parte ritenuta più al sicuro, nascosta tra gli alberi. Il tempo per scavare era poco, rimaneva qualche minuto per porre una croce di legno con sopra il nome e il cognome. Tornare a quella croce era un’impresa, ma era importante. Oggi i corpi sono stati sistemati, risepolti e quei segni del calvario sono rimasti lì: gli stessi in legno, con nome e cognome pronti per essere portati via dal tempo. Dopo il ritiro dell’esercito russo dalla regione, non aveva senso riportali nel cimitero nuovo: nessuna morte è normale, quelle però lo erano ancora meno, dovevano rimanere in un posto anormale, in uno spazio legato al ricordo che unisce soltanto i sopravvissuti ed esclude gli altri, esclude noi. 

 

Chernihiv ha un ente del turismo molto attivo, prima della guerra totale organizzava escursioni, visite guidate nella città, faceva tutto quello che  un ufficio del turismo è abituato a fare per promuovere le proprie ricchezze. I suoi uffici sono ancora aperti, sono funzionanti, ma si dedicano ad altro: tracciano le storie dei crimini russi e portano le persone nei posti dell’invasione. Gli sfregi dei missili sono ancora ben visibili, soprattutto quelli che hanno squarciato l’hotel Ucraina. L’edificio agli abitanti non è mai piaciuto e chi ne è stato ospite pare si lamentasse del servizio; oggi circolano battute amare su questo albergo, nessuno promette di ricostruirlo più bello, tutti commentano che il servizio non avrebbe potuto essere peggiore. L’ufficio del turismo accoglie chiunque voglia sapere cosa è accaduto in quei giorni, per il momento sono soprattutto gli ucraini a voler andare a vedere: guardano e pensano, inevitabilmente, che sarebbe potuto toccare a loro. Il turismo del trauma è una componente importante nel racconto della guerra, ma il rischio è che si colleghi l’Ucraina alle sue tragedie, come è accaduto più di trent’anni fa con la centrale nucleare di Chernobyl e con i visitatori interessati ai resti della devastazione, alla ruota panoramica rimasta immobile, ai segni della festa del Primo maggio che non venne mai celebrata. All’ufficio del turismo non si preoccupano di questo, sono convinti che il momento di scoprire l’Ucraina, le sue città, persino le sue spiagge, addirittura la Crimea, arriverà. 

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)