L'editoriale dell'elefantino
Su Navalny, Lula e Salvini si confermano due eroi dell'impudenza
Le parole impietose del presidente del Brasile sulla morte del dissidente russo smascherano la sua pavidità e la resa al più forte. Ad aspettare i referti medici e le conclusioni delle autorità ci sono lui e il nostro vicepremier
Che persona spregevole è Lula. Beata la generazione dei boomer. Ebbe a che fare con il misticismo del guerrigliero eroico, e il narcisismo martirologico del “Che” Guevara, una trappola dell’iconismo ideologico ma non un insulto pieno di disprezzo umano alla verità. Lula ha fatto il carcere, è stato intrappolato in un processo politico, sebbene la staffetta con la capa di Petrobras alla presidenza del Brasile non deponga contro i suoi conflitti di interesse e la sua avidità politica (almeno quella), si è infine dovuto battere contro un delinquente trumpista alla brasiliana, Bolsonaro, e in molti abbiamo fatto il tifo per lui, eroe della libertà e della lotta alla povertà.
Tutto cancellato, si spera per senile ubriachezza, dalla dichiarazione offensiva con cui ha premiato i desiderata di Putin, che ha nell’Italia di Salvini e nel Brasile di Lula i paesi da amare. Navalny per lui è morto non si sa bene perché. Il Times di Londra riferisce autorevolmente alcuni dettagli dalla rete Gulag.net (Gulag no): il pugno al cuore dell’Fsb, già Kgb, l’esposizione al freddo glaciale per due ore e mezzo, e come che sia di ciò sta di fatto che il suo corpo è sotto sequestro, la madre Lyudmila chiede di riaverlo per la sepoltura ma deve aspettare, la porta dell’obitorio è chiusa, passeranno almeno due settimane, pare, e intanto si teme l’incinerazione di questo poverocristo morto in circostanze che fanno vergogna al comune senso di umanità, dopo un trattamento speciale come l’operazione speciale in Ucraina, che galoppa. In tutto questo ad aspettare i referti medici e le conclusioni delle autorità ci sono due eroi dell’impudenza, Salvini, quello della felpa e della figura di merda planetaria rimediata in Polonia, premiato dalla vicepresidenza del Consiglio in questo grottesco paese che a volte non ne vuole proprio sapere di farsi amare, e Lula, amico del Sudafrica, dell’accusa di genocidio a Israele, e di Putin, of course. La lotta alla povertà e alla deforestazione dell’Amazzonia sembrano lo schermo economico e ambientale di una tirannia della demenza e della complicità aperta con la peggiore infamia del XXI secolo.
Lula era il beniamino in Italia del vecchio Ingrao, della sinistra comunista che parla alla luna, dell’ecologismo internazionale, dei campus, un uomo per sognare a occhi aperti il solito futuro radioso de los trabajadores, e resta una specie di statista eroico nell’immaginazione fervente dei suoi sostenitori, costretti a credere in un monumento posticcio alla menzogna, in mancanza di meglio. Ha incamerato anche l’applauso dei liberal e dei conservatori non asserviti al bolsonarismo trumpiano, noi, ha incamerato quello che ha potuto, e restituisce la strabiliante incapacità di capire dove stiano, questo cinico con il cuore sempre in mano, il bene e il male morale e politico nella tana in cui era rinchiuso Navalny, un recinto penitenziario detto Lupo siberiano. Uno speciale tipo di umanità, di cui si registrano campioni italiani insigni, nella politica e nei media, non capisce il significato della morte in carcere. Di ogni morte che accada dentro le mura di un carcere, specie in un caso patente di illegittimità giuridica e politica, il caso di un dissidente al quale ora si fanno perfino le pulci, ora che è un cadavere solitario come era stato solitario il suo confinamento illegale. Lula è il capo di un grande paese sofferente, ha la ventura di parlare a nome della sofferenza, lo fa in questo caso da perfetto impostore, da maschera orrenda e nemmeno tragica della pavidità e della resa al più forte. E ne proverà vergogna quale che sia il suo destino personale.