LO SPECIALE sulla guerra
“Nessuno ama i perdenti”. Il racconto del 24 febbraio 2023 del corrispondente del Wsj
Ventiquattro mesi di conflitto. Tra dolore e un senso di calmo trionfo, le domande di Zelensky allora, e quelle di oggi
Manu, Stevo e io siamo tornati a Kyiv alla fine di febbraio 2023, prima dell’anniversario della guerra, l’atmosfera nella capitale ucraina era di calma trionfante, e di dolore. Gli ucraini erano sopravvissuti all’inverno. La cattedrale di Santa Sofia, fuori dall’Hotel Intercontinental, era illuminata di notte, proprio come in tempo di pace. Il presidente Joe Biden aveva appena depositato i fiori sulla piazza del monumento ai difensori dell’Ucraina, a pochi passi dall’esposizione di carri armati, obici e trasportatori russi distrutti.
Un anno prima, l’albergo era vuoto e l’ambasciata americana abbandonata a causa dell’incombente minaccia russa. Anche se la guerra continuava a infuriare, Biden aveva affrontato un viaggio notturno in treno per venire a mostrare solidarietà agli ucraini. “L’Ucraina non sarà mai una vittoria per la Russia”, aveva dichiarato il giorno successivo a Varsavia. “Gli appetiti dell’autocrate non possono essere placati. Devono essere contrastati”. Nei giorni precedenti il 24 febbraio del 2023, l’Intercontinental si era trasformato nel cuore della diplomazia globale. Quando ho fatto il check-in, il primo ministro italiano, Giorgia Meloni, stava attraversando l’atrio con il suo seguito di consiglieri, uomini della sicurezza e troupe televisive. Il primo ministro spagnolo è arrivato il giorno seguente. Uscendo dalla mia stanza, mi sono imbattuto nell’ambasciatore polacco: il suo primo ministro alloggiava in fondo al corridoio. Praticamente tutti gli inviati stranieri che conoscevo si trovavano al mattino nel ristorante per la colazione, sorseggiando cappuccini con i loro collaboratori e gli interpreti. Il seminterrato dell’hotel era pieno di celebrità internazionali a Kyiv per una conferenza. La sera, i parlamentari britannici, francesi e di altre nazioni si riunivano nel bar dell’hotel, affollato, che serviva Negroni e Whisky sour ben oltre l’ora del coprifuoco delle 23. Prendendo un drink la sera del 23 febbraio, osservavo il filosofo francese Bernard-Henri Lévy, con i suoi capelli indisciplinati, che gesticolava animatamente dall’altra parte della sala. Un gruppo di combattenti della Legione internazionale facevano amicizia con i vip al tavolo vicino. Era passato anche Kozhemiako. Khartiya, l’unità che aveva fondato, era in procinto di essere trasformata in una brigata a tutti gli effetti della Guardia nazionale, parte del nuovo raggruppamento che si stava preparando all’offensiva. Serhiy Zhadan, il romanziere di Kharkiv che guidava anche un gruppo rock, aveva già scritto una bella canzone di battaglia per Khartiya: “La verità dell’est ucraino è assieme a noi”, diceva. Zhadan e la sua band avevano organizzato un concerto a Kyiv pochi giorni dopo, un evento affollato in cui raccoglievano fondi per i droni. “Volete vedere Mosca bruciare?”, c’era scritto sui volantini promozionali.
Kozhemiako era preoccupato per il cappio che si stava stringendo attorno a Bakhmut, mi mostrò quanto gli uomini della Wagner fossero avanzati nel tentativo di circondare la città. Alcuni dei suoi soldati erano lì quella notte. Sembrava evidente che, prima o poi, Bakhmut sarebbe caduta. Ma a un anno dall’inizio della guerra, era anche chiaro che l’Ucraina aveva vinto la guerra per la sua indipendenza. Non era certo quali sarebbero stati i confini del paese, con o senza Bakhmut. Ci aspettavano battaglie sanguinose. Ma l’Ucraina non sarebbe scomparsa ancora una volta dalla carta geografica. Non sarebbe stata inghiottita e digerita dalla Russia. Valeva la pena di festeggiare.Molti abitanti di Kyiv avevano lasciato la città per qualche giorno intorno al primo anniversario della guerra, temendo che Vladimir Putin potesse scatenare un attacco mortale per sfogare la sua rabbia. Ma la notte fu tranquilla e al mattino Volodymyr Zelensky, Valeri Zaluzhny e gran parte della dirigenza ucraina si ritrovarono in piazza Santa Sofia, di fronte alle truppe che si erano riunite per una commemorazione. Nessuno di questi uomini sentiva più il bisogno di nascondersi nei bunker. La paura era sparita. Zelensky trovò quel giorno le parole giuste per esprimere i sentimenti degli ucraini: “Non abbiamo avuto paura, non ci siamo arresi”. “L’Ucraina ha sorpreso il mondo… Questo è stato un anno di determinazione, un anno di resistenza, un anno di unità, un anno di infrangibilità, un anno crudele. La conclusione principale è che abbiamo resistito e non abbiamo subìto la sconfitta. Ora faremo di tutto perché quest’anno si arrivi a una vittoria”. I telefoni di ogni ucraino ora contengono almeno un contatto che non risponderà mai più alle chiamate o ai messaggi, disse Zelensky: “Non cancelleremo i loro nomi dai nostri telefoni, né dalla nostra memoria. Non perdoneremo né dimenticheremo mai”. Stavo guidando per la città all’ora di pranzo. C’era traffico e i negozi e i ristoranti erano pieni, con le luci accese. Come quasi ogni giorno, nella cattedrale di San Volodymyr si stava svolgendo il funerale di un soldato caduto, una cerimonia a cui partecipavano diverse centinaia di persone. “Il moscovita non è un fratello per noi”, diceva il sacerdote, padre Bohdan, ai presenti mentre recitava la preghiera. “È Caino che ha perseguitato Abele”. A un paio di isolati di distanza da Khreshchatyk, un museo aveva allestito una mostra di poster con citazioni dell’ex primo ministro israeliano Golda Meir, nata proprio dietro l’angolo, nel 1898. “Essere o non essere non è una questione di compromessi”, si poteva leggere su uno di essi, con un dipinto della Meir in abito ucraino. “O si è o non si è”.Nel quartiere di Podil, mi ero poi imbattuto in una libreria e in un caffè appena aperti. Il personale faceva tatuaggi temporanei per celebrare la giornata. Una delle proprietarie, Ivana Lishnevets, aveva scelto l’immagine di una molotov. Aprire un’altra libreria in lingua ucraina era di per sé un atto di resistenza contro la Russia, aveva detto. “Il sentimento principale che proviamo oggi è un enorme senso di gratitudine nei confronti di tutti coloro che ci hanno regalato questo anno di vita. Chi difende la nostra terra e chi è già caduto”.
In fondo alla strada della libreria, avevo iniziato a parlare con Anastasia Lisnychenko, una giovane madre che spingeva un passeggino con dentro sua figlia. Nella scala degli orrori inflitti dalla Russia, era stata fortunata. Certo, lei e la sua bambina un anno prima erano dovute fuggire da Kyiv verso le campagne dell’Ucraina centrale, mentre il marito era rimasto a difendere la città. Ma ora erano tutti insieme, nella loro casa, in buona salute. Ho chiesto a Lisnychenko come si sentisse: “La rabbia non è passata. Odio i russi con tutto il mio cuore e auguro loro tutte le peggiori cose del mondo per quello che ci hanno fatto”, mi aveva detto, con le lacrime agli occhi. “Una volta non provavo questi sentimenti nei loro confronti”, aveva aggiunto asciugandosi le lacrime ormai fuori controllo. La conferenza stampa di Zelensky per l’anniversario si era svolta al piano inferiore, nel seminterrato dell’Intercontinental. I leader stranieri erano tanti, nelle prime file. Sul palco c’era lo slogan: “L’anno della resilienza” e Liuty, una parola ucraina che significa sia febbraio sia feroce. Stanco ma deciso a godersi il momento, Zelensky ha tenuto banco per quasi tre ore. Ha detto sì a un giornalista azero che aveva promesso al figlio di farsi un selfie con il presidente. Ha ascoltato educatamente un giornalista olandese che gli aveva offerto un quadro, anche se la sicurezza è intervenuta per impedire che la spessa cornice raggiungesse il palco. Ha pizzicato un inviato cinese: come mai Pechino non si era schierata con Kyiv per il rispetto della sovranità e dell’integrità territoriale? L’unico momento in cui Zelensky ha perso la calma è stato quando un corrispondente della rete televisiva Channel 5, di proprietà di Petro Poroshenko, è stato chiamato per una domanda. Si è visto chiaramente come l’aspra politica interna ucraina, sospesa da un anno, si fosse risvegliata dopo un lungo sonno. Alzandosi in piedi, il giornalista ha chiesto a Zelensky se avesse qualche rimpianto per aver cullato gli ucraini nella noncuranza quando incombeva l’invasione e quale punizione attendesse il suo “amico d’infanzia” Bakanov, il capo dell’Sbu appena licenziato. Ignorando la domanda su Bakanov, Zelensky si è irrigidito, parlando con furia gelida: “Mi sembra che io fossi qui il 24 febbraio. Non sono scappato da nessuna parte. Credo che sia importante che non abbiamo perso lo stato… Non sono un eroe, ma forse ho fatto qualcosa di giusto se ora siamo qui”, aveva risposto. Poi è arrivato il colpo di grazia: “Dovremo vincere con il presidente che abbiamo ora. Con quello che avevamo prima, non l’abbiamo fatto”.Zelensky, tuttavia, si è concentrato su altro. L’Ucraina, vista come una vittima sfortunata un anno prima, era ora una forza con cui fare i conti. Il coraggio del suo popolo e i successi sul campo avevano trasformato le menti di tutto il mondo. Un anno dopo la guerra più sanguinosa d’Europa a memoria d’uomo, Zelensky, come molti ucraini, era un uomo privo di illusioni. “Nessuno ama i perdenti”, ha detto. “Per quanto orribile possa sembrare, questa è la verità. Tutti vogliono stare dalla parte dei vincitori”.
La guerra ha continuato a devastare l’Ucraina nel 2023, uccidendo, distruggendo le sue città e mandando in rovina vaste campagne un tempo prospere. Nonostante l’aumento degli aiuti militari da parte degli Stati Uniti e degli alleati, la mobilitazione della Russia e le nuove fortificazioni difensive russe hanno reso ogni tentativo ucraino di riconquistare il territorio perduto molto più costoso della controffensiva del 2022. Eppure, mentre ogni tabù autoimposto crollava uno via l’altro, Kyiv ha ottenuto l’autorizzazione a dotarsi di jet F-16 di fabbricazione americana e ha ricevuto dalla Gran Bretagna i missili da crociera Storm Shadow, che hanno esteso il suo raggio d’azione a tutti i territori occupati. Altri centri di comando e depositi di armi russi sono finiti sotto il fuoco ucraino e sono morti generali e alti ufficiali russi. La Wagner di Evgeni Prigozhin è riuscita infine a catturare le rovine di Bakhmut alla fine del maggio del 2023, al prezzo di, come ha riconosciuto, diecimila ex detenuti morti e di diecimila mercenari volontari morti. Il tributo reale è stato probabilmente più alto. Non potendo più attingere al sistema carcerario russo, la Wagner si è ritirata da Bakhmut quel mese, lasciando il comando all’esercito russo regolare. L’Ucraina, che ha perso migliaia di soldati nella battaglia per la città, ha iniziato a contrattaccare nell’area di Bakhmut, recuperando lentamente il terreno perduto. La popolazione civile della città si era ridotta a zero, quasi nessun edificio era rimasto in piedi. Bakhmut non c’era più. Mentre il ministero della Difesa russo cercava di togliere autonomia alla Wagner, Prigozhin lanciò un ammutinamento, creando la più grave crisi politica dei 23 anni di governo di Putin. In un video sconclusionato del 23 giugno 2023, ha messo in discussione i miti fondanti della guerra di Putin, affermando che gli ucraini non avevano bombardato i civili nelle zone del Donbas occupate dai russi e non avevano pianificato di attaccare queste aree prima del febbraio 2022. Zelensky, ha aggiunto, avrebbe accettato un accordo con Putin, evitando la guerra, se “qualcuno fosse sceso dall’Olimpo” per negoziare. L’unico motivo dell’invasione, aveva aggiunto Prigozhin, era il desiderio di saziare l’ego dei generali e di riempire le tasche degli oligarchi. E’ una cosa notevole detta dall’uomo responsabile di alcune delle peggiori atrocità della guerra.
Dopo aver conquistato la città meridionale di Rostov il 24 giugno, Prigozhin aveva inviato i suoi mezzi verso Mosca, avanzando per centinaia di chilometri incontrando poca resistenza, prima di abbandonare la ribellione e accettare l’esilio in Bielorussia. Putin aveva scatenato la guerra con l’obiettivo di un cambio di regime in Ucraina, ma ora era stato il suo stesso regime a vacillare per un giorno, sull’orlo del collasso. Dopo il putsch, le purghe hanno coinvolto alcuni dei principali generali russi, logorando ulteriormente il morale. La fragilità del sistema russo era sotto gli occhi di tutti. La violenza si è riversata in Russia anche in altri modi. A maggio, i ribelli russi sostenuti dall’Ucraina hanno brevemente conquistato la città di confine nella regione russa di Belgorod. Gli attacchi di droni ucraini contro obiettivi in Russia sono diventati comuni, compreso un attacco simbolico che ha inflitto danni minori al Cremlino il 3 maggio. La guerra aveva finalmente toccato tutti i russi. Mosca ha risposto intensificando i colpi missilistici su Kyiv, ora protetta da batterie Patriot che hanno deviato la maggior parte di questi attacchi. Tuttavia, Mosca è riuscita a colpire, ancora una volta il quartier generale del Gur. I funzionari russi hanno insistito per settimane sul fatto che Budanov era stato ucciso – che poi è ricomparso molto vivo. Il 6 giugno, proprio mentre le forze ucraine iniziavano la grande controffensiva nel sud, sostenute dai carri armati Leopard e dai veicoli da combattimento Bradley, la diga di Kakhovka è esplosa, inondando vaste aree a valle e svuotando l’ampio bacino della Kakhovka. Decine di migliaia di persone sono state sfollate e l’Ucraina meridionale ha dovuto affrontare anche un disastro ecologico. Kyiv e Mosca si accusarono a vicenda di aver distrutto la diga. Esperti indipendenti, tuttavia, hanno concluso che la diga poteva essere stata fatta saltare in aria soltanto dall’interno, probabilmente con esplosivi collocati in un passaggio sotto la struttura. Questo passaggio era sotto il saldo controllo russo. L’offensiva ucraina volta a riprendere le zone occupate di Zaporizhzhia e Kherson, come previsto, è stata sanguinosa e difficile. I russi hanno usato il tempo a disposizione per imparare e prepararsi e sono riusciti a infliggere perdite significative con droni e aerei. L’Ucraina, non disponendo di aerei moderni a causa dei ritardi nella fornitura degli F-16, ha avuto difficoltà a proteggere i propri cieli. I carri armati Leopard e i veicoli da combattimento Bradley ucraini distrutti sono disseminati sui i campi verde smeraldo di Zaporizhzhia. Ci aspetta una lunga ed estenuante battaglia.
Questo è un estratto dal libro “Our Enemies will vanished” di Yaroslav Trofimov, pubblicato a gennaio. Trofimov è chief foreign affairs correspondent del Wall Street Journal, lavora dall’Ucraina, dove è nato, dal 2022.
Lo speciale del Foglio a due anni dall'invasione russa