dopo il 7 ottobre
Al Bataclan arrivano bandiere e slogan pro Palestina
Nel luogo simbolo della violenza jihadista torna lo spettro del fondamentalismo. “Gli stupidi osano tutto”, dice il padre di una vittima
Nathalie Jardin è morta il 13 novembre 2015, a 31 anni. Lavorava come tecnico delle luci al Bataclan, la sala concerti parigina dove nove anni fa un commando di jihadisti ha assassinato novanta ragazzi innocenti, gonfi di sogni e joie de vivre. “Come gli altri genitori delle vittime del Bataclan, ho vissuto il peggior dolore che un padre possa provare: la perdita di un figlio. Tre individui che si definivano ‘soldati’ hanno sparato a bruciapelo contro centinaia di persone disarmate che erano lì per assistere a uno spettacolo, proprio come i ragazzi che ballavano e si divertivano nei pressi del kibbutz di Re’im lo scorso 7 ottobre, prima di essere massacrati dai terroristi di Hamas”, dice al Foglio Patrick Jardin, padre di Nathalie. La strage di Hamas al rave party di Re’im, nel quadro del Supernova Music Festival, è “il Bataclan israeliano”, sottolinea questo padre ferito che nell’estate del 2020 ha pubblicato un libro, “Pas devant les caméras!”, per ricordare la figlia e gridare la sua rabbia contro la barbarie islamista. Per questo, lunedì scorso, non ha potuto rimanere in silenzio dinanzi a un filmato registrato durante il concerto al Bataclan del duo siro-tedesco Shkoon. Un filmato dove il pubblico urlava “Free Palestine, Free Palestine”, mentre risuonava un remix di “Yamma mwel el hawa”, canzone palestinese il cui testo recita: “Preferirei essere accoltellato che vivere sotto il giogo dei farabutti”.
“‘Gli stupidi osano tutto, è da questo che li si riconosce’, diceva Lino Ventura in una scena del film ‘Les Tontons flingueurs’ con dialoghi di Michel Audiard. E’ stato il mio primo pensiero quando ho sentito quelle grida al Bataclan. Ma provo soprattutto disgusto”, dice al Foglio Patrick Jardin, e aggiunge: “Prima di gridare quelle cose avrebbero dovuto riflettere su ciò che è accaduto dentro quella sala. È come se avessero ucciso mia figlia una seconda volta”. A diffondere il video sui social network è stata Muzna Shihabi, militante palestinese e moglie di un giornalista del Monde, perseguìta dalla giustizia per aver pubblicato il disegno di un parapendio la sera del pogrom del 7 ottobre. “L’alto luogo del dolore francese provocato dalla barbarie islamista, occupato dai sostenitori di Hamas. Il tutto celebrato da Muzna, sposa palestinese di Benjamin Barthe, caporedattore del Monde responsabile del medio oriente, perseguìta per aver festeggiato il 7 ottobre. Tre simboli in uno”, ha reagito subito dopo la pubblicazione del filmato l’avvocato francese Gilles-William Goldnadel. “Che dire… quei giovani non si rendono conto che così facendo sostengono Hamas. Ignorano ciò che rappresenta e ciò che vuole il movimento dei Fratelli musulmani”, ha commentato Florence Bergeaud-Blacker, saggista e ricercatrice del Cnrs esperta di estremismo religioso.
Secondo Patrick Jardin, non è stata un’improvvisazione quella del 10 febbraio. “Era tutto premeditato, perché all’interno della sala c’erano delle persone che avevano una bandiera palestinese. Non avrebbero dovuto farli entrare”, afferma. Fino al 2021, il Bataclan era di proprietà del gruppo Lagardère. Tre anni fa, assieme alla società di show business americana Aeg (Anschutz Entertainment Group), il comune di Parigi guidato dalla sindaca socialista Anne Hidalgo è diventato proprietario della sala concerti di Boulevard Voltaire. Paris Entertainment Company, società guidata dall’imprenditore Nicolas Dupeux, si occupa della gestione del Bataclan. Il Foglio ha sollecitato a più riprese sia Paris Entertainment Company sia il comune di Parigi per un commento su quanto accaduto il 10 febbraio, ma senza avere risposte. “Da parte del comune di Parigi, non ho mai ricevuto nessun messaggio di sostegno. Ho scritto anche alla direzione del Bataclan perché dopo quello che è accaduto il 13 novembre 2015 penso che non sia più soltanto una sala concerti, ma anche un santuario, un luogo di memoria, che deve essere rispettato. Non mi hanno risposto, e sono sicuro che non mi risponderanno mai. Mia figlia lavorava al Bataclan. Pochi mesi dopo, un rapper islamista voleva esibirsi su quel palco. Mi sono battuto per vietare il suo concerto. E, assieme ad altri genitori delle vittime del 13 novembre 2015, ci sono riuscito”, racconta al Foglio Patrick Jardin. Il riferimento è a Médine, autore di canzoni come “Don’t Laïk” e “Jihad”, dove invita a “crocifiggere i laici come sul Golgota” e a “lanciare fatwe sulla testa degli stronzi”, ma soprattutto amico del comico antisemita Dieudonné M’Bala M’Bala. Nel gennaio del 2014, invitato come ospite su Radio Skyrock, Médine si fece fotografare intento a “glisser une quenelle”, e cioè a fare quella sorta di saluto nazista al contrario, inventato e portato alla ribalta da Dieudonné. Un’altra quenelle, Médine, l’aveva rifilata a distanza di pochi mesi davanti al muro di separazione tra Betlemme e Gerusalemme, prima di incidere il singolo anti israeliano “Gaza soccer beach”. “Massimo sostegno al popolo palestinese, quale simbolo della resistenza e dell’ingiustizia”, dichiarò al momento dell’uscita.
“Ci sono cantanti che non dovrebbero più esibirsi al Bataclan, che dovrebbero essere considerati persona non grata”, dice Patrick Jardin. Prima di ricordare un altro episodio increscioso avvenuto nel 2019, nel quadro di una manifestazione organizzata dal Collectif contre l’islamophobie en France, dissolta a fine 2020 dall’attuale governo per estremismo islamico. “Cinque anni fa, a duecento metri dal Bataclan, c’è stata una manifestazione con un personaggio che si chiama Yassine Belattar (comico e speaker radiofonico, ndr) che con un megafono, da un camion, ha gridato ‘Allah Akbar’, ossia lo stesso grido degli attentatori, senza alcun rispetto per le vittime degli attacchi del 13 novembre 2015”, dice al Foglio Patrick Jardin. E’ lo stesso grido che il 19 ottobre è risuonato poco più in là, a place de la République, quando migliaia di persone si sono riunite per una manifestazione che voleva essere propalestinese, ma è degenerata rapidamente in un raduno antisemita a cielo aperto. “Sogno un mondo dove posso manifestare per il popolo palestinese, il popolo israeliano e la pace senza essere associata a persone che gridano ‘Allah Akbar’, come accaduto a place de la République”, commentò all’epoca la leader dei Verdi Marine Tondelier, giudicando il grido islamista “scioccante, alla luce del contesto”.
Élisabeth Lévy, direttrice del magazine Causeur, ha spiegato nel suo ultimo editoriale perché anche l’urlo “Free Palestine, Free Palestine” del 10 febbraio era fuori luogo all’interno del Bataclan: una questione di rispetto e, appunto, di “contesto”. “Letteralmente, ‘Free Palestine’ non ha nulla di sconvolgente. È legittimo difendere l’esistenza di uno stato palestinese. Ma è una questione di contesto, come direbbe l’ex professoressa di Harvard Claudine Gay, che affermava che invocare il genocidio degli ebrei potrebbe (o meno) essere una violazione delle regole della sua università a seconda del contesto (da qui il divertente montaggio con la copertina del Mein Kampf sostituita dal Mein Context sui social network). In questo caso, ‘Free Palestine’, nel contesto attuale, non significa liberare la Cisgiordania e Gaza (che non è più occupata) secondo le risoluzioni dell’Onu, ma liberare la Palestina dal fiume al mare, in altre parole: distruggere Israele”, ha sottolineato la direttrice di Causeur, prima di aggiungere: “Questo slogan è cantato nelle manifestazioni, è scritto con lo spray nelle nostre università, è di gran moda nelle università americane. Dal 7 ottobre, ‘Free Palestine’ non è più un appello per il popolo palestinese che potremmo tutti condividere, ma uno slogan pro Hamas. Forse i giovani al Bataclan non ne erano a conoscenza. Ma l’ignoranza non è una scusa”. In un comunicato del 26 ottobre 2023, il duo che si è esibito la sera del 10 febbraio, nato dall’incontro tra Ameen Khayr, ex studente di ingegneria siriano costretto ad abbandonare il suo paese natale per le sue prese di posizione contro Bashar al-Assad e a rifugiarsi in Germania, e Thorben Tüdelkopf, giovane produttore tedesco di musica elettronica, si è espresso in questi termini su quanto accaduto dal 7 ottobre in avanti: “Il popolo palestinese merita gli stessi diritti umani che chiederemmo per tutte le persone, così come tutto il popolo ebraico merita di vivere in pace e senza paura in questo mondo. Siamo consapevoli che l’appello alla non violenza è un privilegio. Tuttavia, possiamo trarre una sola conclusione. Le uccisioni devono cessare. Lo sfollamento dei palestinesi deve cessare. Il genocidio deve finire. Finché le persone al potere useranno le armi e l’oppressione come strumento per una cosiddetta soluzione, finché le persone vedranno l’uccisione di civili come una rivoluzione, non ci sarà pace”.
Il Foglio ha contattato il duo siro-tedesco, che ha accettato di rispondere alle nostre domande. “Nelle nostre canzoni, c’è sempre un messaggio politico che vogliamo trasmettere: parliamo l’uno dell’altro, uniamoci attraverso la musica. Avviciniamoci attraverso lo scambio culturale. Una parte importante del concetto di Shkoon è sempre stata quella di mescolare il folklore arabo con i moderni ritmi occidentali, perché questo riflette anche ciò che siamo. Il nostro concerto al Bataclan faceva parte del tour del nostro album (‘Masrahiya’, ndr) e la nostra canzone ‘Set Free’ con il testo di ‘Yamma mwel el hawa’ fa parte di questo album. ‘Yamma mwel el hawa’ è una canzone folkloristica palestinese dell’inizio del Ventesimo secolo e si riferisce al desiderio di vivere liberi dall’oppressione dei colonizzatori (all’epoca il mandato britannico). La canzone è stata adattata anche alla rivoluzione siriana del 2011 e deve essere vista in un contesto più ampio”, dicono al Foglio Ameen Khayr e Thorben Tüdelkopf. Dopo il video del 10 febbraio, che mostrava il pubblico cantare a più riprese “Free Palestine, Free Palestine”, alcuni hanno parlato di “profanazione”, sia esponenti del mondo politico sia genitori delle vittime del 13 novembre 2015. “Queste reazioni ci rattristano molto e ci spaventano anche perché mostrano l’aumento dell’islamofobia. I terribili attacchi terroristici al Bataclan e in tutta Parigi nel 2015 sono stati commessi dal cosiddetto Stato islamico. Un gruppo che ha distrutto anche la maggior parte della città natale di Ameen (cantante della band), Deir ez-Zor, in Siria. Poiché anche Ameen ha perso dei familiari a causa dell’Isis, vogliamo sottolineare il nostro profondo cordoglio per le vittime degli attacchi terroristici del 2015 e per i loro parenti. L’associazione generale di arabi o musulmani con gruppi come l’Isis è altamente pericolosa e assurda. Se il pubblico del nostro concerto grida ‘Free Palestine’ deve essere visto come un appello pacifico al cambiamento”, afferma il duo, prima di aggiungere: “Ameen ha aperto la serata dicendo ‘Che la pace sia su di voi’ in arabo. Speravamo che un concerto così pacifico, con il nostro pubblico proveniente da molti luoghi e situazioni diverse, inviasse un messaggio di unità e dimostrasse che non possiamo essere divisi gli uni dagli altri come esseri umani. Nessun regime, nessun gruppo terroristico, nessuna ideologia politica può cambiare questo concetto. E crediamo che questo sia il senso di questa serata”.
La chiusura è sulla partecipazione di Israele alla prossima edizione dell’Eurovision (si terrà a Malmö), al centro di numerose polemiche. Molti artisti hanno chiesto agli organizzatori della manifestazione canora di escludere lo stato ebraico a causa di quanto sta accadendo a Gaza. “L’Eurovision è un evento che negli ultimi anni ha avuto molti motivi per essere criticato”, sottolinea il duo siro-tedesco, prima di concludere: “Soprattutto perché collega i musicisti e la loro musica agli stati nazionali, ci sarà sempre un legame con l’attuale situazione politica o il governo dei paesi partecipanti. Questa non è una rappresentazione autentica della musica e della cultura. Ad ogni modo, dal nostro punto di vista, l’intero evento dovrebbe essere ripensato”.
Cosa c'è in gioco