il libro
Il giorno in cui l'inferno è sceso su Israele
Non hanno ucciso per un territorio, ma per un’impresa di sterminio, per eliminare la vita e la storia di queste vite col fuoco, con la morte e, oltre la morte, fino alla cremazione. Un’anticipazione del libro che racconta il 7 ottobre
Uscirà il 1° marzo il nuovo libro del giornalista del Foglio Giulio Meotti, di cui anticipiamo in questa pagina alcuni passaggi. “Il Sabato Nero. La distruzione d’Israele, i barbari e l’Europa” è il titolo (Lindau, 144 pagine, 14,50 euro).
Il 7 ottobre 2023 è festa in Israele. Si onora il Sabato di Simchat Torah, la gioia della Torah che segna la fine degli otto giorni di festività di Sukkot. Migliaia di razzi vengono lanciati contro le città israeliane di Sderot, Ashkelon, Tel Aviv e Gerusalemme. Superano il totale dei missili sparati in un anno da Gaza.
Più di tremila terroristi islamici sono intanto già penetrati da Gaza attraverso 29 brecce nella barriera che circonda la Striscia, che hanno aperto con le ruspe e le motoseghe. Sotto il naso degli israeliani, Hamas aveva costruito una rete di tunnel per infiltrare terroristi in territorio ebraico ed esfiltrare ostaggi israeliani. Tunnel in alcuni punti larghi abbastanza da far passare un’auto e costruiti con i soldi delle Nazioni Unite, dell’Unione Europea, dei paesi arabi e dei donatori internazionali. Ma i razzi sono solo una copertura. Quella che si vuole compiere è un’invasione. Nel giro di pochi minuti, i barbari piombano su quattro basi militari al confine: Zikim, Re’im, Nahal Oz ed Erez. I soldati israeliani sono pochi in un giorno festivo. La raffica di razzi li spinge a mettersi al riparo. Chi non è ucciso sarà preso in ostaggio. Gli obiettivi erano chiari: uccidere quante più persone possibile, catturare ostaggi e portare la battaglia nel cuore del territorio israeliano. Dopo il ritiro dei coloni da Gaza, la linea del fronte è Sderot. E Sderot cade in mano di Hamas per molte ore. Una nota scritta a mano trovata addosso a un barbaro incoraggiava a decapitare e smembrare: «Affila le lame delle tue spade e sii puro davanti ad Allah!». Sir Tom Stoppard, il drammaturgo britannico, dirà: «Si tratta di una lotta per il territorio o di una lotta tra civiltà e barbarie?». Dalla sera prima è in corso il «Supernova», un festival di musica all’aperto che attrae molti giovani in una delle più belle zone d’Israele. Stanno ballando quando all’alba scendono sulla folla dei parapendii a motore. Impossibile nascondersi nello spazio aperto e in pieno giorno. Come quattro Bataclan: 364 israeliani uccisi.
La CNN mostrerà un video di un’auto con le portiere spalancate. I corpi di chi ha cercato di scappare sono riversi sulla strada, si vede il barbaro che si avvicina con un coltello, si inginocchia e inizia a staccare le teste, ripreso da una telecamera del kibbutz di Nir Oz. Trenta giovani hanno trovato rifugio all’interno di un sudicio bunker stradale fuori dal kibbutz di Re’im. Più di una dozzina uccisi, i loro corpi fatti a pezzi. Gli altri, storditi e feriti, portati a Gaza. Hamas ha pianificato anche questo: togliere a Israele ogni senso di sicurezza legato ai rifugi. Nell’aria del mattino la voce metallica degli altoparlanti dei kibbutz lancia l’allarme in ebraico. «Ai rifugi, ai rifugi!». Ma dall’esterno risuona un grido in arabo: «Yitbach al Yehud». Macelleremo gli ebrei. Chen Kugel, direttore del Centro nazionale di medicina legale, dirà: «Alcuni corpi sono bruciati a oltre 700 gradi, il che ci porta a credere che sia stata utilizzata la benzina per aumentare la temperatura. Alcune delle vittime avevano le mani legate, ed erano ancora vive, perché c’era fuliggine nella trachea. Abbiamo trovato teste separate dai corpi». L’esercito israeliano riesce a intervenire solo alla fine della mattinata. Sono combattimenti feroci mai avvenuti prima in territorio israeliano. La raccolta dei cadaveri inizia in serata. I barbari hanno dato lezioni di inferno. Uomini, donne, anziani, bambini, animali, massacrati, amputati, decapitati o bruciati vivi. Dietro la porta di ogni singola casa è avvenuto l’indicibile. A testimoniare l’orrore, i muri crivellati, le stanze bruciate, il sangue ovunque. Nelle cucine di Nir Oz, i barbari vogliono attentare alla vita e ai luoghi della vita. Non uccidono per un territorio. Uccidono per disincarnare l’umanità in un’impresa di sterminio pianificata.
Prima di abbatterle, danno fuoco alle case per costringere gli abitanti a uscire dalle loro «stanze sicure», che non possono resistere a un incendio, per ridurre in polvere ogni traccia di umanità. Vogliono eliminare la vita e la storia di queste vite col fuoco, annullarle con la morte e, oltre la morte, fino alla cremazione. Guardando e riguardando quelle immagini, viene naturale pensare che nessun paese europeo sarebbe in grado di resistere una settimana al posto di Israele. Ma Israele per quanto potrà resistere?
I barbari gridano «Allahu Akbar». Ancora e ancora. Sono felici. Sono in estasi. Non è guerriglia. È omicidio di massa. Un cane in un giardino va loro incontro. Uccidono anche lui. Si intrufolano oltre le altalene dei bambini. All’interno della casa c’è un anziano. Gli sparano. Un gemito. «Hamas ha cavato gli occhi a un uomo, tagliato il seno a una donna e le gambe della figlia», racconterà un soccorritore. Una donna è uccisa mentre carica la lavatrice. Un bambino morto è in mutande. Hadar e Itay vengono uccisi a Kfar Aza mentre cercano di proteggere i loro gemelli di dieci mesi. A Kfar Aza nessuno era abbastanza vecchio, giovane o debole per essere risparmiato. L’esercito ha impiegato mezza giornata per raggiungere il kibbutz. Sono uccisi madri, padri, bambini, giovani famiglie, nei loro letti, nella safe room, nella sala da pranzo, in giardino.
Intanto a Gaza ci sono manifestazioni di gioia forsennate. Una ragazza terrorizzata è prelevata da una camionetta. Senza scarpe, ha i pantaloni insanguinati intorno all’inguine. «Allahu Akbar». Itzik Itah, uno dei comandanti di Zaka, racconterà: «Abbiamo aperto una porta e abbiamo visto un uomo bruciato, le dita mozzate. In una casa marito e moglie erano stati legati l’uno all’altra, lei è svestita, ha subito uno stupro».Shani Louk lavorava come designer grafica e tatuatrice a Tel Aviv: hanno stuprato Shani in gruppo e poi le hanno rotto le gambe. Ecco perché nella scena del pick-up che ha fatto il giro del mondo gli arti di Shani sono divaricati. I soldati l’hanno identificata dal cranio: il resto del corpo non c’era. Barouch Niddam, direttore di Zaka a Tel Aviv, è stato tra i primi soccorritori arrivati nel sud. “Siamo entrati in una casa e abbiamo trovato un’intera famiglia massacrata. Pozze di sangue. Sembrava di essere all’inferno. Quell’odore di sangue non lo dimenticherò mai. La vista del sangue spruzzato sul muro. Dopo aver affrontato questo genere di cose, torno a casa la sera e vedo le scarpe da tennis di mia figlia vicino alla porta. La aiuto a legarle prima di andare a scuola”. Un agente di polizia filma il festival: una moltitudine di corpi, aggrovigliati, sconnessi, le donne senza mutande. Diverse decine di corpi dietro il bancone che serviva le bibite, nella zona dove c’erano i congelatori e dove molti hanno cercato rifugio. Sembrano bambole di pezza, gli arti slogati, le teste all’indietro, il collo spezzato.
Negli alberghi di Netanya e Petah Tikva intanto arrivano folle di profughi israeliani provenienti da Ashkelon e Sderot. Oltre duecentomila persone nella più grande evacuazione di massa della storia. Gina Semiatichova viveva a Kissufim. I terroristi di Hamas l’hanno trascinata dal rifugio al soggiorno, dove l’hanno freddata con una pallottola alla testa. Il Memoriale di Terezín ha riportato la notizia della sua morte. È solo una dei molti sopravvissuti alla Shoah che hanno perso la vita. Il bilancio del Sabato Nero ammonta a 1200 israeliani uccisi, 301 soldati, 55 agenti di polizia e 10 agenti dello Shin Bet. Ancora più terribile il trattamento riservato alle soldatesse. «Le loro espressioni di agonia sono sopravvissute alla loro morte», rivela la riservista Shari Mendes, la cui unità rabbinica si è occupata dei corpi. «Avevano gli occhi aperti, una smorfia deformava la bocca, i pugni serrati. Una mutilazione genitale sistematica. Una giovane donna era senza gambe: erano state tagliate. Abbiamo trovato diverse teste mozzate, una aveva ancora un coltello da cucina conficcato nel collo». Nel centro di Be’eri i barbari hanno massacrato la maggior parte delle persone nascoste in una clinica. La vittima più anziana aveva 88 anni, la più giovane meno di un anno. Nir Oz ospitava decine di attivisti pacifisti, molti dei quali negli anni si erano offerti volontari per un programma, «Road to Recovery», che portava gli abitanti di Gaza negli ospedali israeliani. Perché dopo il 7 ottobre non si è saputo di un solo palestinese a Gaza che abbia cercato di salvare un israeliano?
A casa degli Evens, il fumo ha riempito intanto la safe room. Per resistere si sono spogliati, restando in mutande, ma poi, nella disperazione, hanno finito per aprire una finestra e scappare fuori. Hanno abbandonato il loro cane, Marco, un vizsla ungherese, temendo che attirasse l’attenzione dei terroristi. In mancanza di un altro posto dove nascondersi, si sono sdraiati sotto una fila di alberi. I soldati israeliani li ritroveranno tutti lì, uccisi con un colpo alla testa.
A pianificare le azioni del 7 ottobre è stata la pura volontà di sterminio. E lo sterminio ha maglie larghe, è sempre totale. I racconti dei sopravvissuti o i video sul massacro dei lavoratori thailandesi buddhisti, con il capo fatto a pezzi come un’anguria dalla zappa di un «militante per la libertà» di Hamas, sono la prova di questo male assoluto. Un massacro ripetuto per ore al grido di «Allahu Akbar!», come se ci fosse un Dio capace di tollerare una tale barbarie. Come se la morte fosse diventata Dio.
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