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Il governo italiano guarda alla cinese Byd per produrre auto made in Italy

Giulia Pompili

Il ministro del Made in Italy Adolfo Urso ci conferma i contatti con la cinese BYD ma per fare auto “sovraniste”. Le posizioni ambigue

 “Abbiamo diverse interlocuzioni con più aziende”, dice al Foglio il ministro del Made in Italy Adolfo Urso. E conferma le parole che l’altro ieri Michael Shu, managing director del colosso delle auto elettriche cinese BYD Europe, ha detto a Bloomberg su alcuni contatti del governo italiano con l’azienda di Shenzhen, nella Repubblica popolare cinese, per aprire un impianto di produzione in Italia. La condizione posta dal governo è che però siano auto senza componenti cinesi ma “made in Italy”, un’opzione di difficile realizzazione per la BYD, che è in grado di abbattere i costi di produzione grazie anche alla sostanziale differenza di prezzo fornita alle aziende cinesi sulla componentistica.

 

Palazzo Chigi guarda in Cina per fare un dispetto a Stellantis, e pure perché effettivamente il marchio cinese – il più diretto competitor della Tesla di Elon Musk – finora è sembrato molto interessato a espandersi in Europa. C’è un motivo politico per l’azienda di Shenzhen: produrre direttamente in Europa è un modo concreto per aggirare l’indagine formale della Commissione europea lanciata a ottobre scorso sui sussidi statali e la competizione sleale dell’industria delle auto elettriche cinesi, che per ora si concentra sulle importazioni in Ue. E così BYD ha investito per ora, guarda caso, sull’Ungheria dell’amico di Pechino (e di Mosca) Viktor Orbán, dove ha aperto tre punti vendita soltanto nella capitale e venerdì scorso ha consegnato il primo lotto di veicoli BYD Atto 3 – il modello di auto elettrica sportiva che in Cina si chiama Yuan Plus – ai proprietari ungheresi. Il colosso cinese, che l’anno scorso nell’ultimo trimestre ha sorpassato Tesla per numero di auto vendute, ha firmato un accordo con il governo ungherese per costruire entro tre anni il primo impianto europeo di produzione nella città di Szeged, che sarebbe il primo in Europa. 
Il centrodestra al governo, però, ha sempre osteggiato il mercato cinese dell’auto elettrica e l’ha fatto notare di nuovo, ieri, il vicepremier e ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini, che a Perugia ha detto che “pensare che dal 2035 non produrremo più auto a motore, ma solo elettriche, è un suicidio economico e sociale e consegnarsi mani e piedi alla Cina”. La pensava allo stesso modo la premier Giorgia Meloni, che un anno fa festeggiava il rinvio a data da destinarsi del voto europeo sul Regolamento che avrebbe previsto lo stop dal 2035 alla vendita di auto nuove diesel e benzina perché avrebbe “avvantaggiato la Cina” e penalizzato “in maniera marcata l’industria europea dell’auto” (conferenza stampa di fine anno 2022).

 

Se il governo adesso vuole portare BYD in Italia, è cambiato qualcosa in questa posizione? “Abbiamo radicalmente cambiato il Regolamento Euro 7 realizzando a sorpresa una nuova maggioranza in Europa, rimuovendo così l’ostacolo principale alla competitività delle case automobilistiche europee”, dice al Foglio Urso, che poi aggiunge: “Ovviamente nel contempo lavoriamo all’ipotesi di una seconda casa automobilistica in Italia” oltre alla Fiat, “che possa ampliare la gamma dei modelli offerti al mercato, soprattutto macchine elettriche, ovviamente prodotte in Italia con la componentistica italiana e non meramente assemblate”. Ma quale può essere mai questa seconda casa automobilistica in Italia? Il mercato sta attraversando una rivoluzione epocale nella quale la Repubblica popolare cinese, attraverso la sua BYD, sta vincendo grazie al quasi-monopolio della manifattura delle batterie e una catena di produzione che la avvantaggia. Ma la dipendenza dalla Cina e la concorrenza sleale delle auto e dei componenti cinesi è esattamente quello che Palazzo Chigi stava cercando di evitare e su cui anche la Commissione europea sta lavorando – per esempio con il Chips Act.

 

C’è però un filo sottile che unisce la notizia di “contatti” con il colosso delle auto cinesi BYD e il tentativo dell’Italia di affossare un altro regolamento europeo, quello sulla due diligence di sostenibilità delle grandi aziende, che imporrebbe il controllo di chi compra materiali o servizi fuori dall’Ue, sia dal punto di vista dell’impatto ambientale sia sul fatto che la catena produttiva non sia frutto di lavoro forzato. L’Italia, insieme alla Germania, ha costretto l’Ue a rimandare il voto per due volte, e oggi c’è il terzo tentativo ma il ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida qualche giorno fa ha spiegato che le aziende italiane continueranno a comprare il pomodoro cinese dello Xinjiang – quello che secondo diverse analisi e studi è il frutto del lavoro forzato della minoranza uigura perseguitata dal Partito comunista cinese – per non lasciare quote di mercato all’America. Per il governo italiano più atlantista dopo quello Draghi, a quanto pare, l’uscita dalla Via della seta cinese non era una direzione politica ma solo un atto formale: nel concreto si continua a lavorare con Pechino su tutti i fronti, anche quelli più controversi. 

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.