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I russi con Navalny contro Putin e la sua guerra agli ucraini

Micol Flammini

Il funerale è stato il giorno del coraggio, l’appuntamento con la guarigione, dalla morte si è rianimato un battito disperato

La bara era aperta, Alexei Navalny era proprio lì, quel che rimane di lui, coperto di rose rosse e tulipani bianchi. Al suo fianco sua madre e suo padre. Sua moglie Yulia è tenuta lontana, i suoi figli Darja e Zakhar anche, suo fratello Oleg pure. Alcuni dei suoi collaboratori sono rimasti a distanza, legati a una diretta su YouTube fatta di ricordi, previsioni, ricostruzioni di questa morte voluta. Rischiava di essere un funerale di lutto e di paura, di solitudine e di vuoti. Invece è arrivato un coraggio estemporaneo fatto da chi Navalny non lo conosceva, da chi forse lo aveva seguito, magari stimato, e da chi invece era lì per far sapere a Vladimir Putin che a poco più di due settimane dalla sua autorielezione non tutti sono disposti ad accettare il film dell’orrore di una nazione mostrificata, in cui gli oppositori muoiono in cella, in cui una guerra è stata creata dal nulla, ma per giustificarla si dà la colpa agli altri, all’occidente, all’Ucraina. Oggi al funerale si scandiva “net vojne”, “no alla guerra”, si urlava che “gli ucraini sono brave persone”, si chiedeva “riportate i soldati a casa”, c’era ogni istanza, c’era un legame, un filo che parte da Kyiv e arriva fino a Mosca e indica la strada per abbattere il regime di Vladimir Putin. La distanza tra le due capitali è di quasi novecento chilometri, la lontananza tra i due popoli è ancora più profonda. Un popolo combatte, vive anche se muore. L’altro sembra morire anche se vive, ma oggi, al funerale del più famoso degli ultimi oppositori del Cremlino, ha dato un segnale che  invece c’è ancora vita, la paura non l’ha ucciso, la propaganda non l’ha divorato. C’è un battito che si è rianimato dalla morte, e oggi c’era anche la curiosità di chi era andato a vederla, questa Russia viva, e che chiedeva di vivere, nel tentativo di rianimarsi. Durante l’ultima manifestazione che era stata organizzata dopo l’arresto di Navalny, nel 2021, la polizia non aveva mosso un manganello, i manifestanti erano stati ordinati, avevano chiesto la liberazione dell’oppositore ed erano tornati a casa. La polizia era entrata in azione dopo, bussando porta per porta, arrestando molti di coloro che erano andati a manifestare ed erano stati schedati. Probabilmente accadrà anche questa volta e potrebbe accadere di peggio: i ragazzi che sono stati nella chiesa di Mar’ino e poi sono andati al cimitero Borisovskoe per commemorare Navalny potrebbero essere mandati al fronte a combattere una guerra alla quale oggi hanno detto di “no”. 


Il Cremlino ha cercato di martoriare il corpo di Navalny, lo ha tenuto prigioniero da morto come da vivo, voleva costringere la famiglia ad accettare delle esequie silenziose, nascoste, l’ha ricattata con la minaccia di infliggere ancora a quel corpo del male e del dolore. Oggi il privato e il pubblico si sono mescolati, la Russia è uscita, si è fatta vedere, ha parlato, si è guardata. E’ stato un funerale di regime. Il grido di una Russia malata alla sua ultima occasione di guarigione. 

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)