il voto a Teheran
In Iran vince il partito del boicottaggio contro l'appello alla mobilitazione di Khamenei
Mai così pochi iraniani hanno legittimato i seggi come in queste elezioni, le prime da quando è morta Mahsa Amini. Una sconfitta eloquente per gli ayatollah al potere dalla Rivoluzione islamica del 1979
Per quasi mezzo secolo la Repubblica islamica ha spiegato al mondo che la sua democrazia illiberale funziona così: c’è una selezione preventiva e rigida dei candidati, ma poi il gran numero di persone che si mette in fila per scegliere uno tra quelli ammessi è la prova che il sistema funziona – sono le folle di iraniani alle urne a legittimarlo. Ieri ci sono state le prime elezioni in Iran da quando è morta Mahsa Amini e dalla protesta Jin, Jiyan, Azadi (Donna, vita, libertà) e nella capitale Teheran ha votato il venti per cento degli aventi diritto. La partita non si giocava sui nomi dei vincitori e dei vinti, ma tutta sui numeri dell’affluenza. E Ali Khamenei l’ha persa. La Guida suprema ha passato il mese di febbraio a ripetere in ogni sede: “Andate a votare”. Ieri si votava per rinnovare il Parlamento e l’Assemblea degli esperti, quella che decide il nuovo leader in caso di morte della Guida, che ha 84 anni.
In tutto il paese alla sera avevano votato un po’ meno del trentacinque per cento dei cittadini - salito a circa il quaranta grazie a un provvedimento straordinario ed emergenziale delle autorità per prolungare l’apertura dei seggi oltre l’orario solito e previsto. Anche nella città santa e conservatrice di Qom, che ospita i seminari dei mullah ed è la più fedele al regime assieme alla città di Mashhad, la partecipazione al voto non ha raggiunto il quaranta per cento. Non esiste un precedente nella storia della Repubblica islamica che ha viaggiato per decenni con numeri dell’affluenza attorno al settanta per cento e oltre.
Da giorni Teheran e alcune altre grandi città iraniane sono disturbate da nevicate fitte e qualcuno aveva scritto su un muro vicino a piazza Tajrish: “Grazie della neve!”. Il murale in blu è criptico ma online molti iraniani lo hanno decifrato così: grazie alla neve così ancora meno persone si presenteranno ai seggi e il partito del boicottaggio conquisterà la sua prima vera vittoria. Il partito del boicottaggio è quello dei manifestanti, degli studenti della Sharif, della premio Nobel Narges Mohammadi, che dalla sua cella nella prigione di Evin il 25 febbraio ha chiesto a tutti di non mettersi in fila ai seggi, e del politico riformista Mostafa Tajzadeh, che è stato viceministro nella stagione riformista di Khatami e che da allora è un dissidente che esce ed entra dal carcere.
Gli analisti iraniani all’estero, compresi quelli che continuano a frequentare il proprio paese, sono unanimi nel dire che le elezioni del primo marzo 2024 sono la sconfitta più eloquente per gli ayatollah al potere dalla Rivoluzione islamica del 1979. L’esperto Ali Vaez, che fa parte della diaspora ma non ha tagliato i ponti con Teheran, dice: “Il regime è arrivato al punto in cui ha abbandonato la maggioranza degli iraniani, e – da parte sua – la maggioranza degli iraniani ha abbandonato il regime”.
Non è sempre stato così. Negli anni Duemila, fino al voto contestato del 2009 e alla protesta dell’Onda verde, l’affluenza alle presidenziali era oltre l’ottanta per cento e quella alle elezioni parlamentari superava il sessanta per cento. Allora correvano candidati che oggi sarebbero impensabili e non si sapeva in anticipo chi avrebbe vinto. Nel 2020 l’astensione alle parlamentari aveva superato il 50 per cento per la prima volta nella storia della Repubblica islamica – un record negativo e un aumento di quasi venti punti rispetto alla tornata precedente che aveva fatto molto clamore. Con quel voto i politici oggi al potere, conservatori e fedeli alla Guida Ali Khamenei oppure ai pasdaran, avevano conquistato la presidenza e quasi tutto il Parlamento nelle elezioni meno partecipate di sempre, prima di quelle di ieri. Prendersi tutto, arroccarsi, è un sintomo di debolezza e in Iran, nel settembre del 2022 in cui è cominciata la protesta, gli editorialisti riformisti come quelli del quotidiano Hammihan ripetevano: “Coloro che ci governano hanno quasi tutti i seggi in Parlamento e non è un buon segno – per loro. Il vecchio shah conquistò tutti i 268 seggi una volta soltanto: alle ultime elezioni prima di essere cacciato”.
L’unica cosa su cui Khamenei e i manifestanti vanno d’accordo è che l’affluenza alle urne è la misura della legittimità del sistema.