Manuel Rocha - foto Flikr

Il ritratto

L'ambasciatore americano che odiava l'America e spiava per Cuba 

Maurizio Stefanini

"El Rochazo", cioè Manuel Rocha, ex ambasciatore americano in Bolivia e la sua storia personale, segnata da discriminazioni, opportunità e doppiogiochismo

“El Rochazo” è il termine con cui passò alla storia nel 2002 il clamoroso scivolone dell’ambasciatore americano in Bolivia Manuel Rocha, che minacciò i boliviani di tagliare ogni aiuto se avessero votato il “narcotrafficante” Evo Morales. Ovviamente di fronte alla “minaccia dell’imperialismo” il popolo si inferocì, e iniziò a votare invece in massa quello che fino ad allora era stato un candidato minore ancorché chiassoso, proiettandolo a diventare il Chávez boliviano. Lo stesso governo di La Paz protestò, il dipartimento di stato fece sapere che in realtà Rocha aveva agito di testa sua, e il diplomatico per punizione fu licenziato. Poco male per lui, visto che divenne un ricercatissimo consulente di multinazionali attive in America latina. Solo che l’anno scorso è saltato fuori che Rocha era in realtà un agente dei Servizi cubani, e adesso ha ammesso la sua colpevolezza. E dunque  lo aveva fatto apposta: qual è il modo migliore in America latina per far votare un politico, se non facendo sapere che gli Stati Uniti lo odiano?
 

Un gioco delle parti quasi da racconto di Borges, anche se forse nel suo caso bisognerebbe piuttosto evocare il realismo magico di Gabriel García Márquez. Rocha nacque infatti a Bogotá, nel 1950.  Arrivò in America che aveva 10 anni, con una madre vedova che viveva nel malfamato quartiere new-yorchese di Harlem lavorando come operaia malpagata, e sostanzialmente riusciva a dare da mangiare ai tre figli solo grazie ai buoni pasto dell’assistenza sociale. Il sistema americano nel 1965 fece avere al ragazzo una borsa di studio destinata alle minoranze, anche perché era un eccellente giocatore di football. Così si trovò a frequentare la Taft School, collegio d’élite nel Connecticut. In teoria esempio da manuale del “sogno americano”, nella pratica ne uscì  invece risentito. Negli anni 60 i residui razzisti in America potevano essere ancora forti, e pare che il rifiuto di un compagno di classe di condividere con lui una stanza lo abbia portato sull’orlo del suicidio.
 

Da Taft andò comunque a Yale, dove nel 1973 si laureò con lode in Studi latinoamericani, per poi prendere anche un master a Harvard nel 1976 e un altro alla Georgetown University nel 1978. Ma in quell’epoca nel mondo universitario era ancora forte la simpatia per Fidel e il Che, e gli inquirenti pensano che i Servizi dell’Avana lo abbiano reclutato allora. Comunque era già un agente quando nel 1973 si recò nel Cile di Allende, e anche il ruolo della Cia nel golpe di Pinochet può averlo rafforzato nella sua decisione di tradire. Nel 1978 prende comunque la cittadinanza americana, e nel 1981 entra in diplomazia. Lavora alle ambasciate in Honduras, Messico e Santo Domingo. Nel 1994 diventa consulente di Clinton per cose cubane, e gli ispira una politica di smantellamento dell’embargo però bocciata dalla vittoria repubblicana alle Mid Term. Poi all’Avana, a Buenos Aires e in Italia, il suo primo incarico di ambasciatore è in Bolivia, tra 2002 e 2002. Che è anche l’ultimo.
 

Già nel 1987 un disertore dei Servizi cubani aveva avvertito sull’esistenza di una “super-talpa”, e nel 2006 un altro aveva fatto il suo nome, ma non lo avevano creduto. E’ stato però Rocha l’anno scorso a tradirsi con “Miguel”: un finto agente dell’intelligence cubana che in realtà era dell’Fbi, e con cui si è vantato dei suoi servizi al “Comandante”. “Più di un Grande Slam!”. La sua ammissione di colpevolezza potrebbe ora servire a ridurre la pena, è arrivata lo stesso giorno in cui la vedova del leader del dissenso cubano Oswaldo Payá, morto nel 2012 in un misterioso incidente stradale, ha sporto denuncia contro di lui, accusandolo di aver condiviso informazioni che avrebbero incoraggiato i leader comunisti cubani ad assassinare il marito.

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