La polizia bussa alla porta di chi ha partecipato al funerale di Navalny

Micol Flammini

In Russia è bastato guardare i video delle telecamere per trovare chi è andato all'ultimo appuntamento dell'oppositore, La Russia si riempie di domande, a cominciare da quelle di una madre di Beslan che paragona i crimini impuniti del 2004 con la furia delle sentenze contro i dissidenti

La polizia russa ha aspettato: quando non viene colta di sorpresa, aziona la repressione in differita. Anche questa volta si è affidata alle telecamere per identificare chi è andato al funerale di Alexei Navalny, per arrestarlo con qualche giorno di distanza. Lascia passare il tempo, lascia scorrere la paura, i russi lo sanno e gli artisti che hanno dedicato i loro disegni a questa giornata di lutto nazionale non dichiarato l’hanno rappresentata con manganelli, transenne, carri armati in attesa. La repressione è partita, non c’era un orario stabilito, si è presa il tempo per analizzare i filmati, per vedere chi ha detto cosa, chi abita dove.  Non tutti, ma tanti in Russia hanno domande da porre al Cremlino, arrivano da ogni parte della nazione, non soltanto dalla capitale. Emma Tagaeva si è fatta fotografare con in mano un manifesto scritto con il pennarello, la sua domanda è: cosa ha fatto Navalny? Tagaeva ha perso due figli e il marito: era il primo settembre del 2004, erano nella scuola numero 1 di Beslan, erano stati presi in ostaggio da più di trenta terroristi che chiedevano il ritiro dei soldati russi dalla Cecenia. Più di mille persone vennero stipate nella sala della palestra della scuola, ne morirono più di trecento, oltre la metà erano dei bambini, i sopravvissuti vennero liberati il 3 settembre, sulla dinamica, sulle responsabilità, sui colpi sparati contro la scuola, sulla mancanza di precauzione per salvare le vite dei sequestrati, sui negoziati fallimentari con i sequestratori, le autorità russe non hanno mai voluto fare chiarezza e Tagaeva, assieme ad altri cittadini, iniziò a fondare dei comitati per chiedere una ricostruzione fedele, accertata, di un evento con troppe ombre. Tagaeva è la copresidente del comitato La voce di Beslan, il lungo cartellone scritto a mano non è la sua prima forma di protesta contro il Cremlino, nel 2016 si era presentata con altre madri indossando magliette con la scritta “Putin è il boia di Beslan”. Nel 2004 il presidente russo aveva cinquantadue anni, era al suo primo mandato, aveva già urlato di voler andare a scovare i terroristi ovunque – letteralmente – e  a Beslan tardò ad andare, non andò mai a trovare i parenti delle vittime, non volle mai un’indagine accurata sulle responsabilità fatali.

 


C’è una differenza tra le lacune volute facendo finta che non fossero tali e le lacune create per fabbricare accuse, per fare spazio alle sentenze. Non c’è differenza tra le domande delle madri di Beslan e quelle di coloro che si sono messi in fila per salutare Navalny. Nel suo manifesto, Tagaeva scrive: “Nell’attacco terroristico di Beslan del 2004, la mia famiglia è stata uccisa: mio marito e i miei due figli. Per vent’anni i funzionari che hanno dato l’ordine di fare fuoco con i carri armati e i lanciafiamme contro la scuola non sono stati puniti. Il risultato di questo salvataggio è che noi madri abbiamo seppellito i corpi carbonizzati dei nostri figli”. Il dolore di Beslan doveva rimanere a Beslan, i responsabili di quelle morti non vennero indagati, il Cremlino aspettò, senza fretta, che passasse. Non passò. “Cosa ha fatto Navalny? Chi ha ucciso? – si chiede Tagaeva – se nessuno ha risposto della morte di centinaia di bambini, allora perché nei confronti di Navalny è stata usata tanta crudeltà con accuse meno gravi? Per quali crimini terribili vengono pronunciate le sentenze come i venticinque anni di Kara-Murza se, per la morte dei nostri figli, i funzionari non sono stati neppure rimossi dai loro incarichi, ma sono stati promossi e premiati?”. La foto di Emma Tagaeva è stata pubblicata da Elena Kostyuchenko, la giornalista russa autrice del libro “La mia Russia”. Kostyuchenko racconta di un paese che si è perso, espone il processo lungo, mette in fila le inchieste, riallinea tutto, da Beslan all’inizio dell’invasione dell’Ucraina. Tutto sembra assomigliarsi: dentro ci sono le uccisioni, le madri, dissidenti, le guerre, la fretta di condannare gli avversari e l’impunità degli alleati. Ieri la Corte penale internazionale ha emesso due mandati di arresto per due ufficiali russi, Sergei Kobylash e Viktor Sokolov,  accusati di crimini di guerra in Ucraina: la giustizia viene cercata fuori. 
 

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)