lettera da israele
Il percorso di guarigione di Israele dopo il 7 ottobre. Rinasceremo migliori
Quel sabato di festa abbiamo capito immediatamente che tutto sarebbe cambiato per sempre. È ancora presto per parlare di rinascita, ma con grande sforzo e molto spirito, nelle parole di re David, possiamo già vedere i germogli
Quando il figlio del re David si ammalò, questi pregò, digiunò e giacque a terra per sette giorni.
Il massacro del 7 ottobre è stato uno spartiacque tra un prima e un dopo, qui in Israele abbiamo capito immediatamente che tutto sarebbe cambiato per sempre e che non saremmo più tornati a essere quello che siamo stati. È quel tipo di consapevolezza che acquisti di colpo, come quando diventi genitore, o come quando davanti allo specchio scopri le prime rughe, piccoli solchi che trasformano irreparabilmente quello che sei stato. Si tratta di cambiamenti definitivi che non ammettono marce indietro.
Gli anziani della sua casa fecero di tutto perché si rialzasse da terra, ma David rifiutò e non assaggiò cibo con loro.
Sai che niente sarà più come prima, ma non hai idea di come sarà. Questa volta non c’è l’eccitazione che accompagna il rinnovamento, non c’è ansia anticipatoria, siamo in corsa su un tappeto mobile che ci porterà chissà dove, il percorso è obbligato e non concede scorciatoie. Al settimo giorno il bambino morì e i servi di David non osavano avvertirlo che il bambino era morto. È l’orizzonte a mancare, quanto puoi camminare se non sai dove stai andando, prima o poi ti devi fermare, per lo meno per riprendere fiato. Quando manca la prospettiva tutto diventa molto più difficile e i gesti della quotidianità si trasformano in atti di resistenza. È una guerra di sopravvivenza, e ognuno di noi è un combattente, se non al fronte, per lo meno nell’ottimizzazione delle risorse emotive, nostre e dei nostri cari. I servi pensavano: "Mentre il bambino era vivo noi gli parlavamo ed egli non ci dava retta, come faremo ora a dirgli che il bambino è morto? Potrebbe commettere qualche atto insano". E ancora una volta, la consapevolezza ci coglie alla sprovvista, a me è successo mentre ero ferma al semaforo. Una macchina venuta a tutta velocità mi ha tamponato, l’impatto è stato potente, ero sicura che il paraurti posteriore fosse distrutto.
Vedendo che i suoi servi parlottavano fra di loro David capì che il bambino era morto e chiese ai suoi servi: "E’ morto il bambino?" Ed essi risposero: "Sì".
Ho fatto cenno all’altra macchina di accostare, sono scesa come una furia, i miei occhi hanno incontrato quelli di una donna bionda di mezza età, "Sei pazza? Come guidi?", le ho detto. Lei mi è venuta incontro, c’era qualcosa di scomposto in lei e ancora prima che parlasse, ho capito. Allora David si alzò da terra, si lavò, si unse, si cambiò le vesti, andò alla casa del Signore e si prostrò, e rientrato a casa chiese che gli portassero cibo e mangiò. "Il soldato è morto", mi ha detto la donna in un ebraico stentato con un forte accento russo "era uno dei ventuno caduti, io ero all’università, l’ho saputo adesso". Do un’occhiata al retro della mia macchina, è miracolosamente intatto almeno all’apparenza, vai a sapere se i sensori della retromarcia non si sono danneggiati. O se il portabagagli si aprirà. Ma chi pensa più ai sensori della retromarcia, la donna prende il telefono in mano mi indica qualcosa che non riesco a vedere, "sono fuori di me non so come ho fatto", dice, ma il suo ebraico è talmente limitato che a stento riesco a capirla. Allora David si alzò da terra. Nel giorno in cui sono caduti ventuno soldati, ventuno giovani vite, ventuno quello-che-sarebbe-potuto-essere-e-che-non-sarà, chi pensa al portabagagli. Ho teso le braccia alla sconosciuta, che in quel momento mi sembrava molto meno sconosciuta, e lei le ha tese a me. Un abbraccio lungo, lì sul ciglio della strada, davanti ai passanti, se fosse successo quattro mesi fa, ci avrebbero preso per matte; ma adesso no, perché l’abbraccio tra sconosciuti è diventato un gesto usuale e se condividi lo stesso dolore, nessuno è veramente sconosciuto.
Allora David si alzò da terra.
"Todà motek, grazie tesoro", mi ha sussurrato prima di allontanarsi e ripartire a tutta velocità. E io, impalata sul ciglio della strada, per la prima volta in tre mesi, ho scorto l’orizzonte. Ho visto la luce che brillava già da un po’, ma io sommersa nella tragedia collettiva e personale, non riuscivo a vedere. Allora David si alzò da terra. Ora capisco, ne ho la certezza, dal fondo della tragedia rinasceremo migliori. Soltanto adesso, dopo l’abbraccio di questa donna che probabilmente ha danneggiato il telaio della mia piccola utilitaria, so che la nostra mente produce meno anticorpi e che siamo più portati ad accogliere che a respingere. E che questo non è segnale di debolezza, ma al contrario è la nostra forza. E proprio adesso le immagini di questi mesi di guerra mi diventano chiare. Capisco che prima non avevo idea di che cosa fosse l’amicizia vera, ma poi l’ho incontrata nel braccio fermo di una donna che sorregge un’amica che ha appena perso il figlio al fronte. Non avevo idea di che cosa fosse la speranza finché non l’ho vista baluginare nello sguardo di una madre seduta al capezzale del figlio rimasto gravemente ferito in un attentato terroristico. Non sapevo cosa fosse la generosità finché non l’ho sentita ribollire nelle pentole destinate al fronte, cibo preparato con amore da gente volenterosa, generosità che ha il profumo dei piatti della mia infanzia cucinati da mia cugina per interi battaglioni, nella sua minuscola cucina. Non conoscevo veramente la determinazione finché non ho ascoltato le parole di una sfollata dal kibbutz Kissufim, pronunciate in ascensore, mentre andavamo insieme a confortare una famiglia di un soldato caduto che né io né lei conoscevamo: «Niente ci fermerà. Torneremo a casa». In un paese di riservisti, dove in mezz’ora sono tutti in divisa, non ho mai saputo neanche che cosa fosse l’eroismo, ma l’ho riconosciuto nell’immagine di un soldato che spinge la carrozzina di un’anziana donna a Gaza e nella frase della madre di un carrista, che da tre settimane non ha notizie di suo figlio: "Non bisogna mica pensare sempre al peggio!".
Poi David consolò Bat Sheva, sua moglie, giacque con lei ed essa partorì un figlio che fu chiamato Shelomò, e il Signore lo predilesse.
È vero, è ancora presto per parlare di rinascita, questo inverno sembra non avere fine e la fioritura appare ancora lontana, ma con grande sforzo e molto spirito possiamo già vedere i germogli. Finché gli ostaggi non saranno liberati, anche il nostro cuore sarà in ostaggio a Gaza e finché i nostri soldati combatteranno, tutto il paese sarà al fronte, ma dopo, perché ci sarà un dopo, saremo migliori. Si tratta di un tempo diverso, quello che ammette un dopo, non è la dimensione cieca e obbligata della sopravvivenza e solo il pensiero del dopo è già speranza. È questa la luce che brilla da lontano, soltanto da qui, dal ciglio della strada dopo l’incontro con questa donna disperata, finalmente inizio a vedere la fine del tunnel. Rinasceremo migliori, ora lo so. Impareremo a vivere con le cicatrici nel corpo e nel cuore, ma il percorso di guarigione è iniziato, ed è successo molto prima che ce ne accorgessimo, proprio nel momento in cui siamo caduti a terra e immediatamente, senza l’ombra del dubbio né il contrattempo del tentennamento, ma soprattutto senza farci troppe domande, ci siamo rialzati.