Il racconto
Cortocircuito ucraino tra vita e letteratura
Un incontro fortuito, un altro, e poi una spiaggia in Grecia e il confine della Galizia e di Leopoli. La scrittrice ucraina, lo scrittore colombiano, il fronte del Donbas. “I tristi assassini non hanno potuto sterminarci e non ci riusciranno”
Prima scena. Una grande casa rumorosa e viva, le finestre aperte sui suoni della strada, molte donne che parlano e ridono. Moltissime donne. Un patio dove sui fiori si posano i colibrì. Un padre seduto alla scrivania. Un figlio che gira per le stanze e segue con curiosità acuta la scena quotidiana dei visitatori, dei clientes che vanno e che vengono. L’aria tropicale di Medellìn, Colombia, che accarezza le lenzuola tirate di fresco nella stanza dell’ospite che arriva, l’anziano dottor Saunders, dagli Stati Uniti. L’idea che quella casa sia una frontiera porosa, nella città sudamericana desiderosa di giustizia degli anni Settanta e Ottanta: frontiera tra dentro e fuori, tra laici e religiosi, tra indigeni e stranieri, tra poveri e borghesi, tra disperati e volenterosi, tra liberali e progressisti. Tra persone. La casa è quella di Héctor Abad Gomez, medico colombiano, fondatore della Scuola nazionale di sanità pubblica, professore all’università, esponente del Partito Liberale colombiano, animatore di programmi per i poveri di Medellín, la sua città. La scena è riprodotta nel romanzo “L’oblio che saremo”, gran ritratto di un padre e di una famiglia composto trent’anni dopo, nel 2006, dal figlio, divenuto scrittore. “A volte andavamo lontano, in qualche villaggio. Ci portava un pullman dell’Università con tutti gli studenti del suo corso, perché a lui piaceva che lo aiutassero e imparassero allo stesso tempo. “La medicina non si impara solo negli ospedali e nei laboratori, a vedere i pazienti e a studiare le cellule, ma sulla strada, nei quartieri, dove ci rendiamo conto di cosa e di perché si ammalano le persone”, diceva loro, molto serio, dalla prima fila del pullman, con un microfono in mano”. Negli occhi del figlio c’è tutta questa luce di scienza e di riconoscenza per un padre che fa studiare lui e le sorelle, li allena a una libertà personale notevole, li circonda di un affetto anche fisico, fatto di abbracci e di baci e di carezze, che sfida le convenzioni della rude maschilità del tempo, fatta di pacche sulle spalle e mutismo e grugni. E che poi, anni dopo, finanzia l’università del figlio in un posto lontano, l’Italia. Ma guardando il buio che si stende oltre la siepe di quell’isola felice che è la casa di Medellìn, il figlio vede altro. Per Héctor Abad Gomez, considerato un comunista dai conservatori e dai clericali, e un fascista dai marxisti rivoluzionari, il buio equivale ai cartelli della droga e al loro potere sfidato e oltraggiato: sarà ucciso per strada dagli squadroni della morte, i gruppi paramilitari della Colombia, il 25 agosto del 1987.
Seconda scena. E’ una domenica di inizio maggio 2023, al confine tra Polonia e Ucraina. Ho varcato la frontiera nel primo pomeriggio. Le istruzioni di Olesya, amica scrittrice: “Scenderai dal treno a Przemyśl. Di lì prenderai un bus o un taxi fino al varco di confine, poi entrerai in Ucraina a piedi”. Niente di nuovo, è la strada che fanno migliaia di persone, da prima che l’invasione su vasta scala cominciasse il 24 febbraio 2022. A piedi la coda è infinitamente meno lunga che in treno o in bus, soprattutto se sei un cittadino dell’Unione Europea. È comunque una strana, peculiare sensazione. Al Brennero, a Gorizia, a Ventimiglia, i confini non esistono più. Gli altri confini li attraversiamo di solito in modo immateriale: ai controlli in aeroporto. Per andare a Parenzo prima che la Croazia aderisse a Schengen ci incolonnavamo in Statale, nella familiare campagna nell’Istria, tra station wagon tedesche e olandesi, e a malapena il poliziotto buttava un occhio annoiato sul documento, mentre parlava con il collega. In Svizzera si passa attraverso i grandi trafori. Qui, invece, è come la Dogana Vecchia descritta da E.M. Forster nel 1904 per passare dall’Italia all’Austria, in Cadore: boschi, prati, una strada, un varco, una sbarra. Le suole di scarpa, il vento, l’erba, il silenzio. Nella domenica nuvolosa, ancora mezza invernale, i viaggiatori in ingresso in Ucraina dalla Polonia sono pochi. E il piazzale antistante la dogana, che si era riempito nei mesi scorsi di una fiumana immensa di gente, avanti e indietro, in fuga e in rientro, ora sembra un accampamento appena abbandonato da gitani o cowboy, con residui di braci, pasti consumati in fretta, immondizia, valigie rotte. Passo il confine e mi fermo davanti al cartello. “Welcome to Ukraine!”. Lo fotografo e lo mando a un’amica. Yaryna Grusha. Subito mi risponde: “quanto sono contenta. Buon viaggio. Sai dove sono? A Venezia. Con l’amica Vika. Victoria Amelina”. Mi manda una foto di loro. Ora nella mano destra ho l’iPhone con l’immagine delle due ragazze – sfondo di tetti veneziani con tegole rosse e chiese e canali – e per un caso, nella sinistra, in quel preciso momento, un libro, curato da Yaryna e da Alessandro Achilli: “Poeti d’Ucraina”. Lo capovolgo e fotografo la quarta di copertina: è la poesia di Victoria. La mando a loro, in risposta. “Quando lasci la casa, / dice, / La casa si fa più piccola / per conservarsi. / La casa diventa / un sasso grigio / una perla / un nocciolo dell’albicocca dell’anno scorso / un vetro che ti taglia la mano / per strada / un pezzo di Lego / una conchiglia della Crimea / un seme di girasole / un bottone della divisa di tuo padre. / Così la casa ci sta in una tasca / e dorme / Tirala fuori / in un posto sicuro / Quando sei pronto. / La casa crescerà piano piano / E tu mai, / ricordatelo, mai / sarai senza la tua casa”. Il caso ha voluto che mentre entravo nell’oblast dell’antica città di Leopoli la prima a darmi il benvenuto sia stata una delle sue scrittrici, che vi è nata e dove vi ha ambientato proprio un romanzo centrato intorno a una casa di un colonnello sovietico appartenuta prima a uno scrittore polacco ebreo, Stanislaw Lem. Il caso...
Terza scena. Settimane dopo il ritorno da Leopoli. Domenica 18 giugno 2023, una spiaggia della Grecia. Nauplia, scelta a caso in un casuale giro in automobile per il Peloponneso. Arriva un amico greco conosciuto da poco. Dove lo facciamo stendere? Mi giro verso il vicino di ombrellone, quel distinto signore in panama e barba bianca, solitario, più simile a un André Aciman che a un turista tedesco. May I use your spare sunbed? posso prendere questo lettino libero, gli chiedo. “Certo, non lo uso, fate pure”, risponde in un italiano impeccabile. È italiano? “No, ma ho vissuto molti anni in Italia, e ho insegnato la vostra lingua ai miei connazionali sudamericani”. Ah. È qui in vacanza? “Non proprio. Sto andando a un festival letterario, ad Atene”. Be’, io ne organizzo uno, di festival letterario, in Italia. “Oh. Io sono un autore”. Ma davvero? È tradotto in Italia? “Sì, anche se ultimamente mi avete un po’ dimenticato”, risponde, con un sorriso. E che cosa ha scritto? “Il mio primo si intitolava ‘Trattato di culinaria per donne tristi’, edito da Sellerio. Poi altri, con Bollati Boringhieri, con Lindau. Ma il libro che ha avuto più successo è la storia di mio padre, l’ho scritto ormai diciassette anni fa”. Come si intitola? “’L’oblio che saremo’, è edito da Einaudi”. Wow. E con chi ho il piacere? “Héctor”. Héctor Abad Faciolince, scopro in questa conversazione inattesa, è il figlio di Héctor Abad Gomez. Non sapevo, lo confesso, niente di loro: del suo papà, della loro storia, del libro che il figlio ha dedicato alla sua memoria luminosa. Nei giorni seguenti ci sarà l’occasione di leggerlo e di apprezzarlo. Intanto ci salutiamo, non senza un riferimento ai fatti di cronaca, alla controffensiva ucraina che fatica, martellata dall’aviazione russa. Un cenno appena, soltanto un “gli ucraini, certo, hanno ogni diritto di difendersi e di resistere”, da parte di Abad.
Sembra tutto, fin qui, giusto? Quanto alle strane coincidenze della vita e della letteratura, nel loro cortocircuito. Uno scrittore conosciuto per un caso assoluto, su una anonima spiaggia tra le migliaia di spiagge del Mediterraneo in cui si poteva capitare. Perché la letteratura dipende e si sostanzia nei molti piani del visibile e dell’occulto, della superficie e del profondo, di quello che è palese e di quello che, nascosto e strano, oscuro e magico e imprevedibile, sta “lì sotto”: un po’ come fondamenta invisibili, un po’ come fili tirati e abilmente maneggiati. Come l’Humbert Humbert, protagonista e vittima di Nabokov, che si chiede, gemendo, chi è il burattinaio che muove la mia sorte? qual è questo fato dispettoso? e noi lì, a sogghignare con l’autore. Ecco, non è una bella storia già così?
Quarta scena. Mercoledì 28 giugno 2023. Esattamente dieci giorni dopo quell’incontro sulla spiaggia. La notizia che “Vika”, cioè Victoria Amelina, è stata ferita a Kramatorsk in un attacco missilistico russo su un ristorante, in cui muoiono in tanti e in decine restano feriti, me la dà Yaryna. Missili su pizzerie, ristoranti, ospedali, teatri, scuole, case di riposo. Missili sui soccorritori che vanno ad aiutare quelli colpiti dai missili di pochi minuti prima. Missili deliberati e intenzionali. Missili sui civili. Lavrov, ministro degli Esteri russo, col suo sguardo mummificato e impassibile, con la sua calma oscena, rivendica l’attacco. Il portavoce del Cremlino Peskov fa lo stesso, con il solito fantastico e totalitario ribaltamento della verità secondo cui il ristorante “era un obiettivo militare”. Victoria è in coma. Per alcuni giorni restiamo tutti in sospeso, esitanti a scriverne pubblicamente, anche, a fare un post, rispettosi della famiglia, del figlio ragazzino di undici anni che non sa bene cos’è successo. Ma cosa ci faceva Victoria in quel ristorante di Kramatorsk, sul fronte del Donbas, lei che era di Leopoli e che aveva scritto di case e di vita urbana e di memorie di città, lei che poche settimane prima era stata a Venezia? Cosa ci faceva a pochi chilometri dalle trincee? Googolo ‘Victoria Amelina’. Le prime risposte del motore di ricerca sono cose che già so: la sua carriera di scrittrice, le sue poesie, il suo lavoro di ricerca... Un’altra fonte informa che Victoria era sul fronte per documentare i crimini di guerra russi. Che pochi giorni prima aveva presentato il suo libro alla fiera di Kyiv. Scorro ancora. E poco sotto compare questo titolo, diffuso da un sito della Svizzera italiana: “Ucraina: sono colombiani i 3 stranieri feriti a Kramatorsk”. Qualcosa si accende nell’anticamera del cervello. Faccio click. E leggo. “Fanno parte di una delegazione dal nome ‘Aguanta Ucrania’, ‘ tieni duro, Ucraina’, i tre colombiani che si trovavano con Victoria Amelina in una pizzeria durante l’attacco missilistico russo. Oltre all’ex Alto commissario per la pace della presidenza colombiana, Sergio Jaramillo, e alla giornalista colombiana Catalina Gomez, la delegazione comprendeva lo scrittore colombiano Héctor Abad Faciolince. Tutti e tre hanno riportato ferite, ma non sono in pericolo di vita, mentre la scrittrice è stata ricoverata per fratture multiple del cranio...”. Ho letto bene? Non è possibile. Ricontrollo. Cerco freneticamente. Digito: Héctor Abad. Trovo conferme, una dopo l’altra. Resto senza parole, ammutolito. Ripenso alla costellazione delle casualità che ha dato luogo a questa vicenda. Un incontro fortuito, un altro, e poi la spiaggia, e il confine della Galizia e di Leopoli, la scrittrice, lo scrittore, il fronte del Donbas... Victoria era di nuovo in viaggio, si erano fermati a mangiare al ristorante Ria, “ero di fronte a lei – ha scritto Héctor Abad a Paolo Giordano –. Stavamo scherzando sul fatto che non si potesse bere dell’alcol a Kramatorsk. Lei aveva in mano una birra zero e io un bicchiere di succo di mela. Mi ha detto sembra whisky, e ha sorriso. In quel momento ci è cascata la morte dal cielo”. Due giorni dopo, lunedì 2 giugno, leggiamo della morte di Victoria, in seguito alle ferite riportate. Se n’è andata a trentasette anni. Uno sprezzante comunicato russo in risposta alle rimostranze della Colombia dice più o meno: si invitano gli scrittori colombiani a non fare turismo in zone di guerra. Fine. Nella mia testa tornano in continuazione le sue parole sulla casa. Ma anche questa catena di coincidenze. Al centro Héctor Abad, nelle foto compare con la maglietta macchiata dal sangue di Vika, Héctor la cui vita due volte viene lambita dalla morte, e sempre nel mezzo di uno scopo concreto, una volta si sarebbe detto “l’impegno”: mentre cioè chi poteva accontentarsi di fare un lavoro intellettuale aveva scelto di uscire di casa, di andare nelle strade, di aiutare, dire, denunciare. E poi il senso vertiginoso che qualcosa tra vita e letteratura si sia toccato, il caso, forse la famigerata serendipità. Ho chiesto ad Einaudi l’indirizzo mail di Héctor Abad Faciolince. Per mesi non ho trovato il modo di scrivergli. Poi ho rimediato. Aspettavo di chiudere il cerchio. E ora, da una rilettura del suo libro, salta fuori un passaggio che come solo la letteratura sa fare tiene insieme praticamente tutto: la storia di una famiglia colombiana, quella di una giovane donna di Leopoli visceralmente legata alla libertà, che andava in giro per il suo paese a organizzare la resistenza contro l’annientamento e il totalitarismo, quella di un uomo venuto dall’altra parte del mondo che stava sul fronte con lei. “I tristi assassini che hanno rubato a mio padre la vita e a noi, per moltissimi anni, la felicità e addirittura il senno, non vinceranno, perché l’amore per la vita e per l’allegria (quello che ci ha insegnato) è molto più saldo della loro inclinazione alla morte”, scrive Abad. “I tristi assassini non hanno potuto sterminarci e non ci riusciranno, perché qui c’è un vincolo di forza e di allegria, e di amore verso la terra e verso la vita. E poi, da mio padre ho imparato qualcosa che gli assassini non sanno fare: mettere in parole la verità, affinché duri più della loro menzogna”. Aguanta Ucrania.