antisemitismo contemporaneo
Joanna Chen, la "scrittrice sionista" al macero
La rivista letteraria Guernica pubblica un articolo sul 7 ottobre di una pacifista israeliana. Dimissioni dei redattori, ritrattazione e scuse. L’autodafé della coscienza antisemita che non fa sconti a nessuno
Guernica è una prestigiosa rivista letteraria che prende il nome dal quadro di Picasso e che ospita firme come Chimamanda Ngozi Adichie e George Saunders. Ora è nel caos, perché ha pubblicato un saggio sulla coesistenza e la guerra in medio oriente di una romanziera e traduttrice israeliana. In un articolo intitolato “Dai confini di un mondo spezzato” (che pubblichiamo sul Foglio di oggi), Joanna Chen racconta delle sue esperienze di dialogo e di pace con i palestinesi e della sua estraniazione dolorosa di ebrea inglese catapultata nel conflitto.
Prima sono arrivate le dimissioni di dieci membri della rivista che si erano opposti alla sua pubblicazione, compreso il suo ex direttore, Madhuri Sastry, il quale sui social ha scritto che il saggio “tenta di ammorbidire la violenza del colonialismo e del genocidio” e ha chiesto un boicottaggio culturale delle istituzioni israeliane. Anche se Chen aveva fatto tutto tranne che ammorbidire il conflitto, non bastava. Come il regista della “Zona d’interesse”, Jonathan Glazer, Chen da ebrea aveva preso le distanze dalla guerra. Poi il saggio è scomparso dal sito della rivista, sostituito da una nota: “Guernica si rammarica di aver pubblicato questo articolo e lo ha ritirato”. Autodafé e neanche di nascosto.
Contro Guernica protesta il Pen America, per cui “il lavoro pubblicato da uno scrittore non dovrebbe essere tolto dalla circolazione perché suscita proteste o disaccordo. Le pressioni sulle istituzioni culturali in questo momento sono immense”. La situazione è così grave che il Jewish Book Council ha lanciato un’“iniziativa contro l’antisemitismo nel mondo letterario”. La metà degli editori britannici si rifiuta intanto di accettare libri di autori ebrei, secondo un agente letterario sul Telegraph. “Nell’attuale atmosfera, piuttosto febbrile, penso che dobbiamo stare alla larga da tutto ciò che fa riferimento al popolo ebraico”, si è sentita dire una scrittrice. “Semplicemente non vale la seccatura che ne conseguirà”.
Un editore israeliano voleva acquisire i diritti degli ultimi due romanzi dell’inglese Kamila Shamsie. Quando l’editore ha chiesto chiarimenti, Shamsie ha risposto: “Non conosco editore ebraico che non sia israeliano”. Deborah Harris, uno dei principali agenti letterari d’Israele (da David Grossman a Meir Shalev), al Time parla delle sue difficoltà: “Libri che avrei potuto facilmente piazzare con i principali editori oggi sono respinti”. Come Eshkol Nevo, tradotto in inglese, italiano e tedesco, ma oggi non più nei paesi scandinavi.
Lo si è visto con l’artista israeliana di sinistra Zoya Cherkassky, la cui mostra “7 ottobre 2023” è stata contestata al Museo ebraico di New York. Troppo scandalo hanno destato i suoi quadri, con un cadavere violato con le mani legate dietro alla schiena, una donna e un bambino in piedi sopra un mucchio di corpi straziati (allusione alla “Strage degli Innocenti” di Giotto), una famiglia che fa colazione fra i resti carbonizzati del loro kibbutz. Per Guernica non era abbastanza che Chen avesse lavorato per Road to Recovery, la ong israeliana che porta i malati di Gaza a curarsi in Israele. Hamas il 7 ottobre ha ucciso quattro volontari di Road to Recovery e altri due, Oded Lifschitz di 83 anni e Chaim Peri di 79 anni, sono tenuti in ostaggio a Gaza.
Per Hamas e corifei, non esistono “ebrei buoni” in questa strana “zona di interesse” che è l’antisemitismo contemporaneo. Lo scrisse già il filosofo Vladimir Jankélévitch nel 1971: “E se gli ebrei fossero nazisti? Sarebbe meraviglioso. Non sarebbe più necessario compatirli; avrebbero meritato il loro destino”.
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