L'editoriale dell'elefantino
La confusione fra il bene e il male. Perché non ci capiamo sul significato di Olocausto e genocidio
Le guerre in Ucraina e a Gaza segnano la fine della centralità della Shoah nella storia universale, sono la rottura morale nel nostro modo di vedere il mondo. Il paradosso per cui un pogrom porta a mettere in discussione la legittimità della difesa militare israeliana
Le cose sembrano chiare e non lo sono. Sul fronte ucraino, dopo la prevedibile affermazione di realismo del presidente francese Macron, che la Russia di Putin non deve né può vincere e dunque l’impegno indiretto dell’occidente deve cedere il passo a un impegno militare e politico diretto, tira un’aria da vigilia di guerra mondiale, aria da 1914. Chiaro, eppure ci ostiniamo a credere visceralmente che questo esito sia non solo da scongiurare ma impossibile.
Sull’altro fronte, Gaza, tutto dovrebbe essere semplice. C’è stato un pogrom, gli ebrei si difendono e scelgono la distruzione militare del nemico terrorista antisemita, Israele è nato anche per questo, il disastro umanitario dipende dalla trasformazione di un piccolo pezzo di terra in una fortezza difesa da scudi umani, un reticolo di terrore inespugnabile se non a caro prezzo. Invece tutto sembra maledettamente complicato e confuso, fino al paradosso per cui un pogrom porta a mettere in discussione la legittimità della difesa militare israeliana e la sua base fondativa, il Never again pronunciato quando fu costruito sulla verità delle cose il gigantesco racconto della Shoah. Complicato e confuso, il tutto, al punto che su Israele, isolato in alcune circostanze anche dai suoi amici e alleati, si riversa l’accusa di genocidio e di nazismo o di nazificazione, di inversione dei ruoli tra vittime e carnefici.
Netanyahu è la testa di turco di polemiche politiche stanche, e il suo destino politico e personale ha un’importanza relativa, perché tutti sanno che l’opinione prevalente tra gli israeliani, pressoché unanime, esclude la componibilità facile del conflitto esistenziale e la soluzione due popoli due stati. Come afferma Pankaj Mishra in una conferenza di febbraio per la London Review of Books, la Shoah è ormai percepita nell’opinione internazionale prevalente come un bleak construal, una costruzione soggettiva squallida e tardiva che ha consentito agli ebrei di Israele di mettersi dalla parte dell’oppressione lungo la colour line, la linea della liberazione coloniale dei popoli soggiogati dall’occidente.
Aria di guerra in Europa e parallela destituzione di significato al simbolo di barbarie che l’ultima guerra ha deposto davanti a tutti noi: non è qui il colmo della confusione e corrosione morale intorno alla quale noi che pur guardiamo da lontano la scena della tragedia comune ci sentiamo tristemente invischiati? Mishra, che è intelligente, colto, e si avvale di infinite testimonianze di dolore e risentimento di menti ebraiche e no che hanno un posto sicuro nella coscienza del Novecento (Améry, Levi, Steiner, Orwell, Kazin, Leibovitz, Evron, Bauman), non è solo un propagandista dell’ideologia antioccidentale. Parte dall’affermazione di Améry secondo il quale, di fronte alle torture di prigionieri arabi in mani israeliane, bisognava stabilire che “dove comincia la barbarie finisce anche la solidarietà esistenziale”.
Se a Gaza non è guerra contro il nichilismo di Hamas che sacrifica i palestinesi, ma è barbarie militare espansionista e coloniale di uno stato-nazione che ha preso una deriva neocoloniale, allora invocare la Shoah è pura manipolazione e la solidarietà esistenziale con chi non vuole essere cancellato non ha più luogo. Il seguace di Edward Said si spinge a censurare l’orrore provato per il pogrom, quando afferma che “una coscienza distorta della Shoah porta alla conclusione, quando le vittime di Israele, incapaci di sopportare la loro miseria oltre un certo limite, insorgono contro il loro oppressore con prevedibile ferocia, sono denunciate come naziste, e maledette come preparatori e realizzatori di un’altra Shoah”. La “prevedibile ferocia di chi insorge contro l’oppressione” sarebbe il succo di quello che solo in termini manipolatori gli ebrei avrebbero percepito come un pogrom.
La confusione serve a proteggere la deriva dell’ideologia, va bene, lo sappiamo, e la visione del mondo degli orientalisti alla Mishra e dei post colonial professor è anche una falsa coscienza antioccidentale. Ma Mishra non nega che “la Shoah resta un’indispensabile misura per giudicare la salute politica e morale di una società; la sua memoria, per quanto passibile di abusi, può ancora essere usata per scoprire insidiose iniquità”. Si può smascherare il volto coperto di un’ideologia, e dissentire da una obliqua ricostruzione per affinità del risentimento ebraico contro il sionismo armato nella storia del dopoguerra, ma le conclusioni di questo studioso sono da condividere in un punto decisivo.
Con Gaza, e l’Ucraina a fare da testimone possente e dolente del quadro, si è prodotta una rottura, che la composta agitazione dei campus e delle grandi piazze pro palestinesi segnalano acutamente, insieme alle timidezze e alle dissociazioni delle classi dirigenti (vedi Chuck Schumer al Senato americano). “La profonda rottura che sentiamo oggi tra il passato e il presente è una rottura nella storia morale del mondo a partire dal ground zero del 1945, la storia in cui la Shoah è stata per molti anni l’evento centrale e il riferimento universale”. Gaza e l’invasione dell’Ucraina sono, e possiamo comprendere l’una e l’altra solo così, l’espressione turbinosa, confusa e in un certo senso apocalittica, rivelatrice, di una grande rottura morale nel nostro modo di vedere il mondo e il conflitto tra bene e male. Per questo non ci intendiamo più sull’uso della parola genocidio e sull’Olocausto.