elezioni in Russia

In coda per votare. La speranza e le liti davanti all'ambasciata russa a Roma 

Micol Flammini

In Italia, i russi votano tra cartelli pro Navalny, slogan contro la guerra e la sorpresa di essere in tanti. “Non si può vivere in ginocchio per tutta la vita”

Davanti all’ambasciata russa a Roma la coda si è creata all’improvviso. C’è un senso di complicità tra chi si mette in fila, con lo sguardo ci si scruta e ci si domanda: “Perché sei qui?”. “Siamo qui per farci vedere, siamo qui non perché crediamo che il risultato sarà corretto, ma perché non possiamo più rimanere fermi. CI vogliono nascondere, ma noi ci siamo”, dice al Foglio una ragazza che fa foto incredula per aver trovato tanta gente, tanti russi. Qualcuno ha portato dei cartelli, sono dedicati a Navalny, oppure alla bandiera della Russia libera a strisce bianche e blu, volutamente senza il rosso, il colore del sangue. 

 

 

 

Si gridano slogan, si battono le mani. Dire “net vojne” in Russia è pericoloso, “no alla guerra” sono parole  proibite e pronunciarle o scriverle può costare una condanna. Davanti all’ambasciata russa in Italia chi lo grida viene seguito come un’onda da altre voci, fino a quando lo slogan non cambia e diventa una speranza: “Rossja budet svobodna”, la Russia sarà libera. Non lo sarà domani, non lo sarà a partire da questo voto, di questo nessuno si illude. Un signore che preferisce non dire il suo nome racconta che vive in Europa da più di dieci anni, alle ultime elezioni del 2018 non era andato in ambasciata a votare, “pensavo che non sarebbe servito a nulla, tanto il risultato era già deciso. Anche adesso è deciso, non ho speranze, ma oggi ha un significato essere qui”. 

Davanti all’ambasciata si litiga anche, sono due Russie che si vedono e non sono abituate a farlo e rischiano anche di venire alle mani, come quando una donna strappa dalle mani di un ragazzo un cartello con Putin. “Il mondo ha problemi con una Russia, non con tutta la Russia - urla una signora bionda - e bisogna cambiare perché non si può vivere per tutta la vita in ginocchio”. Un’altra la ascolta, non condivide e le mostra sul telefono le prove che invece la Russia che ha ragione è quella che è al potere. “Mi vergogno del mio paese”, riprende la prima signora che grida: “La guerra deve finire!”. Le si avvicina un ragazzo imponente, vestito di tutto punto, con cappello, bretelle e baffi pettinati all’insù. Ha un cartello con su scritto: “La Russia senza Putin”. Si è avvicinato per sostenere la signora: “Siamo qui per far vedere anche alle autorità italiane che devono dare armi all’Ucraina e sanzioni alla Russia”. C’è un’aria di possibilità, si intravede una Russia della speranza in questa fila in cui le persone ridono, fanno amicizia, si contano e si commuovono. Litigano anche. 

 

 

“Voi dalla parte di chi state?”, domanda una signora che non smette di applaudire e di asciugarsi le lacrime dietro agli occhiali da sole. “Qui in Italia mi tocca litigare spesso, non sa quanta gente è dalla parte di Putin, dice che questa guerra è giusta, che lui ha ragione”. Sono anche qui dei disturbatori isolati, guardano, si dicono pacifisti.

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)