Verso le presidenziali 2024
Così Donald Trump ha trovato il modo di farla sempre franca
Come si combatte la disinformazione nelle campagne elettorali quando alle bugie non si è posto alcun rimedio? La complessità del complottismo, la viralità dei social e il contagio del trumpismo. Intervista al giornalista Sasha Issenberg
Los Angeles. "La disinformazione è solo una parte dell’asimmetria che si è creata con la comunicazione digitale. È cambiato il modo in cui vengono fatte le campagne elettorali, e Donald Trump ne è in parte responsabile", dice al Foglio Sasha Issenberg, che ha appena pubblicato il libro "Lie Detectors. In search of a Playbook for winning elections in the disinformation age". Giornalista, oltre che professore di scienze politiche all’Università della California a Los Angeles, Issenberg in un suo libro del 2012 spiegava come i dati, l’analitica, avessero cambiato il modo in cui si fa una campagna elettorale. Ora esplora invece il modo in enti e individui cercano di trovare delle soluzioni per gestire la disinformazione e la fine della fiducia verso i media all’interno delle campagne elettorali. "Prima gli individui e le istituzioni dovevano rispondere a un certo tipo di norme e restrizioni, a degli standard. Il conflitto avveniva in un confine preciso. Nell’ultimo decennio chiunque lavori per un candidato o per un partito si può trovare nella situazione in cui l’avversario agisce fuori da queste regole". Sono subentrati nuovi attori, "come l’intelligence di un paese straniero che agisce senza responsabilità rispetto al sistema americano, come abbiamo visto nel 2016", con la Russia.
Il 2016, l’elezione di Trump, è il grande spartiacque. "Non è solo questione degli agenti di San Pietroburgo. Ma ci sono le folle online di anonimi organizzati fuori dai movimenti tradizionali, che in qualche modo sono diventate una forza nella conversazione politica. Una vera novità nella comunicazione politica americana. A ogni livello politico, il candidato alla Casa Bianca o il candidato a un consiglio comunale deve tener conto di persone anonime che si nascondono dietro una strana foto profilo in un social network e che diranno qualcosa di pazzoide per creare caos o per farci i soldi".
Issenberg racconta come fino a poco tempo fa il mindset tradizionale nelle campagne era: abbiamo speso un sacco in ricerca, sondaggi, focus group, e sono state scelte con estrema precisione le parole da amplificare, i messaggi da condividere giorno per giorno decisi per tempo, in tv o tramite i volontari porta a porta. Chi gestiva la campagna ha sempre avuto un grande controllo sul messaggio, che era cristallizzato e coordinato. Poi "Trump ha abbandonato tutto. Anche perché twittava tutto ciò che gli passava per la testa a ogni ora del giorno o della notte. Ha detto ai suoi sostenitori: potete postare tutto quello che vi va. Sembra stupido, ma la cosa più trasgressiva che ha fatto è stato ritwittare i suoi sostenitori. È totalmente contrario rispetto all’idea di controllo che c’era in una campagna elettorale. Trump amplifica sei o sette messaggi al giorno, che possono anche essere in conflitto con quello della sua campagna. Ma lui ragiona così: se qualcuno dice qualcosa di positivo su di me o qualcosa di negativo sui miei avversari perché non devo volerlo diffondere?".
Rispetto a quella di otto anni fa, la campagna trumpiana per il 2024 è meno caotica. "È più disciplinata. Quella del 2016 sembrava avere un istinto migliore, che era spesso tatticamente intelligente anche quando non c’era strategia". E tutto sembra basarsi sulla "Big Lie", la narrazione secondo cui Joe Biden avrebbe rubato le scorse elezioni. "I politici hanno sempre distorto la verità, ma il livello di menzogne che vediamo oggi è inaudito. Trump ha lanciato un segnale: non mi importano le ripercussioni tradizionali del sistema. Ma per il suo calcolo la cosa non l’ha danneggiato". E il modello Trump ha infettato tutto il sistema, almeno a destra.
"Dieci anni fa uno come Ted Cruz non avrebbe voluto essere chiamato un bugiardo dallo Huston Chronicle, il quotidiano della sua città. Ora invece è difficile ottenere attenzione dentro il partito se non ti opponi a queste istituzioni, ai media. Questi incentivi interni spingono molti repubblicani a dover dire o fare certe cose per far colpo sull’establishment trumpiano". Anche se, come si è visto alle scorse elezioni di metà mandato, i candidati più estremisti hanno perso contro i democratici. Ma continuano a vincere le primarie di partito, e quindi a sopravvivere sulla scena. Issenberg ricorda il momento in cui, poco prima delle primarie del 2016 nella Carolina del sud, Trump attaccò il Papa. "Così, a caso. Se prima di allora avessi chiesto a qualsiasi politico, di qualsiasi religione o origine, se fosse una buona idea attaccare il Papa ti avrebbero risposto: ovviamente no. Ti avrebbero detto che c’era più da perdere che da guadagnare nel farlo. Perché attaccare un leader religioso generalmente rispettato? Nel percorso di Trump ci sono vari esempi simili, in cui gli altri hanno pensato: 'ah, puoi fare questa cosa e le recriminazioni, le conseguenze che pensavamo ci fossero non ci sono'". Questa potrebbe essere l’eredità principale di Trump sul sitema politico. "Ha mostrato che puoi farla franca. Trump sembra in pace con le proprie contraddizioni. Oggi i senatori usano insulti che prima non avrebbero mai pronunciato. Trump ha rotto dei confini e non penso si possa tornare indietro velocemente, nemmeno quando lui se ne andrà. E nel suo giro le scenate che una volta erano considerate fuori misura, oggi vengono premiate".
Secondo Issenberg nemmeno la carcerazione o la morte di Trump distruggerebbero il trumpismo. “Sicuramente dal carcere troverebbe un modo per controllare le news ogni giorno. Se dovesse morire, per un certo periodo di tempo, il fantasma di Trump continuerebbe a spaventare una buona parte del Partito repubblicano”. Un po’ come la testa di Richard Nixon in Futurama. Secondo il giornalista oggi dentro il Partito repubblicano le persone hanno paura più di Trump e del suo elettorato che dei gruppi di interesse e dei lobbisti, che prima avevano una certa presa sul partito e su Washington in generale. Ma Trump non si è inventato tutto. “Un certo disprezzo per le istituzioni che cercano di fare da arbitri della verità, o della scienza, una delegittimazione del mondo accademico era già attivo in una certa cultura repubblicana, ed è difficilissimo da sradicare”. Oggi però è mainstream. “Trump ci ha messo il turbo. È diventato centrale nell’identità del partito”. Soprattutto contro i media. “Nell’ottica complottista oggi se queste istituzioni dicono che una cosa non è vera, il fatto di pronunciarsi diventa una prova della stessa teoria cospirazionista. Si è visto con il Covid. Il fatto che Bill Gates promuova il vaccino diventa un’ulteriore prova del fatto che non ci si può fidare del vaccino. A quel punto sei in un loop da cui non puoi fuggire”. Uno dei temi del libro di Issenberg è cercare di capire come può la sinistra comunicare online. The left can’t meme, si dice ogni tanto.
I giornali in questo momento non se la passano bene, e ci si chiede se gli attacchi di una parte politica abbiano un impatto sui licenziamenti che si vedono nelle redazioni, dal Los Angeles Times al Washington Post. “Un business che ha già delle difficoltà non è aiutato quando alla metà del paese viene detto quotidianamente che è illegittimo. Una volta i giornali e le tv erano degli unificatori laici della vita americana, come i grandi magazzini. Piano piano i giornali e le televisioni sono state delegittimate da un partito. Poi certo, hanno i loro problemi interni. Non penso che il LA Times sarebbe fiorente se Trump ne parlasse bene su Twitter tutti i giorni”. I miliardari che negli ultimi anni hanno comprato riviste e quotidiani si stanno accorgendo che stanno perdendo troppi soldi. “Hanno capito che ci sono dei limiti nelle cifre che sono disposti a perdere”, dice Issenberg. “Per molti la speranza era che questi trattassero i media come vengono trattati i musei, come qualcosa di civico e filantropico dove non si cerca un profitto, ma dove si fanno le cose per il bene della comunità e un po’ per il prestigio, per far colpo sui loro amici. Ma è chiaro che Jeff Bezos non vuole essere come i Medici. Ci sono degli imprenditori benevolenti che aiutano alcuni giornali locali senza aspettarsi qualche forma di ritorno economico, ma non l’abbiamo ancora visto su scala nazionale”. Ci sono però dei giornali che vanno bene, come il New York Times. “Ma forse in questo momento nel nostro paese c’è spazio solo per un New York Times”.
I social per una fetta dell’America sono la principale fonte di informazione. E lì i contenuti non vengono praticamente regolati, o comunque non a sufficienza per evitare il diffondersi di teorie complottiste. Issenberg spiega che fino a sette anni fa queste piattaforme cercavano di mostrarsi attente ai rischi della disinformazione, sia verso il pubblico sia verso il governo. “In generale sembravano voler apparire sotto una buona luce. I ceo volevano mostrarsi come bravi cittadini. Facevano beneficenza. Promettevano che avrebbero fatto qualcosa. Ora Facebook o Google sono meno dedicati a risolvere il problema. Ed è imprudente aspettarsi che il governo agisca”. Il cambiamento è diventato palese dopo l’acquisto di Twitter (ora X) da parte di Elon Musk, e ha portato a una ritirata generale rispetto alle promesse degli anni precedenti. “Prima si pensava che Twitter fosse uno dei buoni. Ora Musk è contro l’idea di una moderazione attiva. Il nucleo di X è la libertà di parola. Penso che questo abbia tolto un po’ di pressione da Google e Facebook. Non devono più sorvegliare in modo aggressivo le proprie piattaforme. Musk ha aiutato a nutrire le teorie complottiste, e quell’idea che c’è a destra secondo cui i democratici e il governo vogliano silenziare le voci conservatrici. E questo ora è parte dell’identità repubblicana”.
Un liberi tutti, che crea vari problemi – come si legge nel libro di Issenberg – a chi lavora nelle campagne elettorali e nelle organizzazioni che si occupano di disinformazione. Per capire come è cambiato l’atteggiamento basta ricordare che prima della nuova proprietà Trump era stato bannato da Twitter. “Oltre alla Lega nazionale del football, Facebook oggi è la cosa più vicina ai vecchi grandi magazzini”, continua Issenberg. “ È qualcosa che soddisfa i bisogni delle persone trasversalmente a livello geografico, razziale, di scolarizzazione, di classe. Quindi le piattaforme pensano: il Partito repubblicano può far rivoltare il 40 percento dei nostri utenti contro di noi, se sembriamo troppo proni a impegnarci nella moderazione dei contenuti”.
Il nuovo grande tema che va anche a toccare la questione disinformazione e moderazione social è l’intelligenza artificiale. Ci sono già stati casi in cui è stata usata per scopi elettorali, come le telefonate con la voce fake di Biden. Issenberg però dice che l’AI non “cambia la natura del problema. Alcune delle menzogne più efficaci che abbiamo visto sono basate su testi scritti. Chi si allarma non vede che i motivi di fondo non cambiano, cioè che le persone sono ricettive a cose scritte, non servono audio o video. Per QAnon – il re di tutti i complotti dell’alt-right – non sono mai state usate immagini”. Così come per il Pizzagate, altra cospirazione ai danni di Hillary Clinton, o per le teorie sulla nascita extraterritoriale e fede islamica di Obama. “Nel secolo scorso era più faticoso e costoso disseminare falsità, ti serviva una tipografia, o una stazione televisiva; certo, potevi andare in giro per un bar a raccontare storie una persona alla volta. Ma non avevi lo stesso effetto. Ora non ci sono barriere. Viralità vuol dire questo. Oggi il costo di creare falsità è zero. Non ti servono strumenti hi-tech per prendere in giro la gente.Detto questo il mondo dei deepfake audio o video sarà una nuova area che le campagne elettorali dovranno gestire, e contribuirà alla confusione su cosa è credibile e cosa no. Però si può essere ottimisti, pensando che ci sono degli strumenti AI che possono aiutarci a rilevare e tracciare la disinformazione online”.
Preso com’è dai processi, ci si chiede cosa si inventerà Trump per provare a vincere. Secondo Issenberg non bisogna dare per scontato che la storia su Hunter Biden sia morta. Il figlio del presidente è uno dei bersagli preferiti dei trumpiani, per via della sua vita dissoluta e del suo lavoro con aziende ucraine e cinesi. “La forza delle teorie complottiste è che sono non falsificabili. Si può sempre aggiungere un nuovo livello al complotto. QAnon è la cosa più complessa del mondo. I No vax hanno reso la storia del perché non possiamo fidarci dei vaccini più complicata della scienza che c’è dietro ai vaccini stessi. È più facile capire come funziona l’mRNA che non, nella narrazione cospirazionista, come Bill Gates abbia convinto l’agenzia federale a far approvare i vaccini Pfizer etc etc. E questa estrema elaborazione è parte del suo fascino”.
È ancora presto per avere pronostici, ma se con Trump abbiamo visto una violenta spaccatura del partito di Lincoln, dall’altra parte Biden è riuscito a tenere uniti i dem. “Dopo l’attacco di hamas del 7 ottobre per la prima volta nella sua presidenza che ha rischiato di perdere un equilibrio che ha sempre mantenuto con maestria”, dice Issenberg. “Perché la più grande abilità politica di Biden in questi 50 anni è stato stare esattamente al centro della coalizione democratica. Nessuna delle due parti, destra e sinistra interne, ha mai pensato di averlo contro”. Oltre ai temi identitari e di policy, come l’immigrazione o l’aborto o le tasse o la gestione dei conflitti, la carta che sta usando ora la destra in vista di novembre sembra essere l’età del presidente. “Che Biden sia vecchio è un fatto”, ci dice il giornalista. “Questo verrà implementato in qualche modo. Già nel 2020 una delle tattiche della campagna del Partito repubblicano era stata: Biden è senile e Kamala Harris è un’estremista. Avevano unito le due cose perché per gli elettori indecisi veniva creata l’ansia che Biden non fosse in controllo alla Casa Bianca. La gente pensava fosse troppo debole. Abbiamo già sentito la storia che all’ultimo momento Obama tirerà fuori alla convention il nome di Michelle. Si sentirà dire: chi è che tira i fili di Biden? Chi è che davvero al comando?”.
E poi, ancora, le menzogne sulle elezioni rubate, quelle che hanno portato al 6 gennaio, all’attacco al Campidoglio. In ogni comizio Trump non smette mai di dire che ha vinto, anche in primarie di otto anni fa, anche in situazioni in cui non ha senso. “Negare il risultato elettorale ormai è impiantato nella cosmologia repubblicana. Non perdono mai, sono gli altri che rubano. E a destra ci sono figure politiche che hanno costruito tutta la loro identità su questo. Difficile che questa cosa non persista, a prescindere da come andranno i risultati a novembre. Non scomparirà velocemente”. E infatti è stata addirittura importata a sinistra. Alle primarie dello scorso SuperTuesday a inizio marzo, la candidata democratica alle primarie, Katie Porter, quando ha perso contro il suo collega di partito Adam Schiff ha detto: i miliardari hanno truccato le elezioni. Secondo Issenberg nel meccanismo di negazione che fa Trump del voto ci sono delle conseguenze negative per lo stesso Partito repubblicano, “chi perde solitamente dopo le elezioni è costretto a interrogare i motivi della propria sconfitta e deve cercare di correggersi, a livello tecnico, tattico, ideologico. Nel Partito repubblicano oggi questo non avviene più perché la gente non accetta di aver perso. Con questo comportamento Trump sta rendendo meno efficaci i volontari del suo partito, e meno attivi i suoi elettori. Li fa allontanare dalla pratica del voto”.